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RESURREZIONE DI TOLSTOJ

Sto finendo di leggere Resurrezione di Tolstoj, l’ultimo grande romanzo dello scrittore russo. Di certo non ha la fluidità di Anna Karenina e Guerra e pace, perché la tesi che l’autore vuole sostenere traspare troppo. Il principe Nehljudof seduce una giovane serva nella casa delle zie, che poi rimasta in cinta e cacciata diventerà una prostituta. Il principe la ritrova dieci anni dopo in un processo in cui viene condannata ingiustamente ai lavori forzati. Il protagonista ha come un’illuminazione, un po’ artificiale, e decide di redimerla sposandola. Il romanzo si sviluppa in un lungo percorso del principe nel mondo carcerario zarista, pieno di riflessioni anarchiche, religiose e anticlericali. Per Tolstoj era stata molto importante la lettura delle Memorie da una casa di morti di Dostoevskij, da cui attinge. Nehljudov si rende un po’ alla volta conto della profonda ingiustizia del carcere, dove finiscono poveracci e gente senza possibilità di una vita dignitosa. Si accorge che le prigioni zariste più che a condannare il crimine servivano a mantenere in piedi un sistema profondamente ingiusto. La Maslova, la sua protetta, viene trasferita fra i condannati politici, dove il Principe incontra diverse figure di rivoluzionario. Mi ha colpito in particolare il veloce ritratto di Novodvorov nei capp. 14 e 15 della terza parte. Uomo antipatico, che esprime al Principe tutta la sua invidia per la diversità di condizione fra loro, diversamente da quanto fanno molti altri, lettore accanito di Marx, che è convinto di sapere ciò che è giusto per le masse, che egli disprezza forse ancor più di quanto fanno i nobili che le stanno sfruttando. Gli altri lo criticano per le sue idee illiberali e antidemocratiche, ma lui invece di agire in base a una riflessione meditata, asserve le proprie riflessioni ai propri sentimenti di vanità e invidia. Tolstoj tramite la sua poesia, nel 1898 aveva già visto quale sarà il tragico destino del comunismo sovietico del 1917.

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PIPPO E PLUTO

Pippo ha capito quale è il problema ed è anche riuscito a trovare una ragionevole soluzione. Non riesce a convincere i suoi compagni, oppure, riesce a convincerli, ma quando lo propone agli altri gli rispondono picche. Molti politologi direbbero che Pippo è un fallito. Pluto non ha capito un accidenti e la sua soluzione è del tutto sbagliata. Però riesce a convincere sia i suoi compagni che gli altri. Questo sì che è un vero vincitore!

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LE CAUSE DELLA CRISI

Oggi i filosofi usano molto il concetto di causalità, che a mio parere, è invece, abbastanza pericoloso. Comunque vorrei soffermarmi su un caso particolare e di uso comune, cioè l’utilizzo di questa nozione nella riflessione politica. Ad esempio, dal 2008 stiamo vivendo una crisi economica strutturale, con alti e bassi, quali sono le cause? Prima di tutto ci sono le cause occasionali; nel caso specifico la catena dei prestiti nel mercato immobiliare anglosassone e il conseguente fallimento della Lehman. Che cosa significa “causa occasionale”? Vuol dire che date le stesse condizioni generali, ceteris paribus, molti altri fattori locali avrebbero potuto svolgere il ruolo di innesco della crisi, magari un po’ prima o un po’ dopo e in maniera un po’ diversa. Poi ci sono le vere cause, cioè quelle che se non ci fossero state, l’episodio non sarebbe mai stato possibile, cioè la conditio sine qua non; nella fattispecie la vera causa è l’accesso al benessere di altri tre miliardi di persone, il famoso BRIC, Brasile, Russia, India e Cina, che ha creato una strutturale sovrapproduzione di manufatti a basso e medio contenuto tecnologico. Dal punto di vista politico, quando si discute sulla causa di un evento, ci si appunta per lo più alla causa occasionale, e si ritiene che per risolvere la crisi sarebbe sufficiente eliminare quella. E’ una via comoda, perché la causa occasionale è spesso superficiale e congiunturale e quindi facile da rimuovere. Infatti oggi tutti dicono che per risolvere la crisi bisogna regolamentare il mercato finanziario, per impedire le speculazioni. Il che sicuramente è una buona cosa, ma di certo non risolve la crisi, che ha origini ben più profonde. Da un punto di vista politico molto meglio sarebbe riflettere sulle vere cause e provare a immaginare dei modi per annullare quell’effetto. E’ più scomodo e difficile, ma di certo più fruttuoso. Le vere cause non sono rimovibili, bisogna invece pensare e immaginare strade diverse. Se la vera causa della crisi è l’accesso al benessere di altri 3 miliardi persone nel mondo oltre al miliardo che c’era già prima, la soluzione potrebbe essere investire in conoscenza e innovazione con ricerca, come hanno fatto in Germania e Stati Uniti, che infatti sono paesi che riescono a contenere i danni della crisi. Ma forse ancora più radicale, sarebbe immaginare e realizzare un modello di sviluppo non più basato su indici monetari, come il PIL, ma su indici che misurano la qualità della vita, come hanno sostenuto fra gli altri la Nussbaum e Sen.

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MARX VIVO

Per l’1 maggio mi viene da ripensare a che cosa è ancora vivo e che cosa è invece morto del pensiero di Marx. Di sicuro abbiamo capito che la storia non ha una teleologia, per cui ogni necessità in questo senso è sbagliata. Anche il progetto comunista è abbastanza balordo, poiché o è una forma di dittatura, come purtroppo nel ventesimo secolo se ne sono viste molte, oppure è un utopia di completa emancipazione dell’uomo, che è del tutto contraria a ogni ragionevole valutazione antropologica dell’uomo. Anche la lotta di classe è un concetto sociologicamente inutilizzabile, poiché la società è fatta da individui e ognuno persegue i propri progetti; a volte ci sono gruppi che si impegnano nella stessa direzione consapevolmente, ma non c’è nessun legame inconscio fra individui che hanno situazioni lavorative ed economiche simili. Si tratta chiaramente di un mito idealista. Anche il concetto di plusvalore ha una rilevanza relativa, poiché non tiene conto della remunerazione del rischio del capitalista e dell’imprenditore. Trovo invece ancora di grande interesse il concetto di feticcio, cioè il valore simbolico di alcuni prodotti, che è stato sviluppato da molti sociologi ed economisti nel Novecento. Anche il carattere alienante del lavoro parcellizzato mi sembra fondamentale e quindi l’importanza della consapevolezza e la lotta contro la spersonalizzazione sul posto di lavoro. Ma forse la cosa su cui Marx ha dato una lezione impareggiabile è come si fa storia. Dopo Il capitale nessuno può più pensare di raccontare la storia senza tenere conto dei rapporti materiali, delle condizioni di lavoro e del contributo delle classi subalterne. Comunque resta uno dei grandi del pensiero.

 

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UN MATRIMONIO FALLITO?

Anna e Marco si stanno separando, dopo una lunga crisi matrimoniale.

Anna pensa: dopo che è nato Giulio, Marco è diventato meno gentile con me. Certe forme di corteggiamento sono sparite. Marco non capiva che per me Giulio è come fosse una parte di me. Poi la sera voleva fare l’amore e io non avevo tanta voglia. Un po’ perché presa dal contatto fisico con Giulio, un po’ perché lo sentivo distante. E lui si rabbuiava sempre più, fino a minacciarmi che sarebbe andato con un’altra donna. E io gli ho detto di fare pure. E lui lo ha fatto e si è anche innamorato di quella deficiente. Adesso la situazione è irreparabile. meglio dichiarare fallito il nostro matrimonio.

Marco pensa: dopo che è nato Giulio, Anna si è occupata solo di lui. Non aveva più voglia di fare l’amore con me. Mi respingeva e mi faceva stare male. Io soffrivo. Vedevo che l’unica donna con la quale non riuscivo a fare l’amore era mia moglie. Magari, invece, sul lavoro, molte altre sarebbero state disponibili. Glielo ho anche detto. A lei non interessava nulla. Ho trovato Carla e io non sono il tipo da solo sesso. Così mi sono innamorato e adesso è meglio che ci lasciamo e consideriamo chiuso il nostro matrimonio.

La stessa situazione relazionale vista da Anna e da Marco sembra dare ragione a entrambi. Ma qui la causa di quello che è successo non è né in Anna, né in Marco. Questo ci ha fatto capire lo psicologo Watzlawick. Si può salvare il matrimonio di Anna e Marco? Probabilmente sì, abbandonando il punto di vista individuale e facendo evolvere la relazione.

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DI PIU’ AI PIU’ MERITEVOLI

Da molti anni si dice in tutte le salse “favoriamo i più capaci e meritevoli”, cioè diamo più spazio a quelli che hanno più doti e si impegnano maggiormente. Bisogna stare attenti, perché in questa affermazione è contenuto un veleno terribile, che consiste nell’abbandonare al proprio destino non solo quelli che si impegnano poco, ma anche quelli che sono meno dotati, cioè i deboli. Teniamo anche conto che spesso quelli che si impegnano poco lo devono alla cattiva educazione dell’ambiente in cui sono cresciuti, per cui, per certi versi, anche loro non sono realmente colpevoli della loro situazione. Bisogna mettersi dietro il velo dell’ignoranza di John Rawls: quando cerchiamo di capire quale è la migliore distribuzione della ricchezza, dobbiamo far finta di non sapere chi siamo, potremmo essere un po’ tonti e crescere in una famiglia che non ci educa all’impegno. Dunque l’affermazione di dare di più ai più meritevoli va moderata. E’ però giusta in parte, perché un sistema che favorisca i più meritevoli crea più ricchezza e più benessere per tutti. Dunque occorre favorire i più meritevoli fino a quando la disuguaglianza che si crea fra loro e i meno capaci fa sì che il valore aggregato del benessere e la sua distribuzione sono tali che i più deboli stanno meglio: il famoso principio del maximin auspicato sempre dal grande John Rawls.

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LA DITTATURA DEL PROLETARIATO

Nella storia del marxismol’espressione “dittatura del proletariato” ha avuto un triste ruolo. Il luogo classico è la critica di Marx al Critica al programma di Gotha, elaborato dai lasalliani nel 1875, dove si legge “Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.”

Detto per inciso. Leggendo gli scritti del marxismo militante, da Marx a Lenin fino a Gramsci, viene in mente quella esilarante scena di “Brian di Nazareth” dei Monty Piton, in cui uno dei capi di una delle tante fazioni che vogliono liberare la Giudea dai romani, chiede “Chi è il nostro nemico?” e gli affiliati additano in coro un’altra fazione, invece dei romani, come sarebbe normale. In effetti nei tre testi che esamineremo Marx attacca violentemente Lasalle, Lenin  e gramsci le forme di socialdemocrazia.

L’idea della dittatura del proletariato non avrebbe nulla a che fare con le tragiche esperienze di Stalin, Mao e Pol Pot, nel senso che non è una dittatura, ma il prevalere con la forza dei molti oppressi sui pochi oppressori.

Questo concetto viene ampiamente ripreso da Lenin durante la Rivoluzione russa. Vedi ad esempio lo scritto Dittatura e democrazia del 1918: “Solo la dittatura del proletariato può emancipare l’umanità dall’oppressione del capitale, dalla menzogna, dalla falsità, dall’ipocrisia della democrazia borghese, che è la democrazia per i ricchi, e instaurare la democrazia per i poveri, cioè rendere effettivamente accessibili agli operai e ai contadini poveri i benefici della democrazia, che restano oggi (pesino nella repubblica – borghese – più democratica) inaccessibili di fatto alla stragrande maggioranza dei lavoratori.”

Il problema è che già in Lenin si fa avanti l’idea che comunque occorre una avanguardia che guidi le masse. Questo lo ritroviamo in diversi suoi scritti da Che fare del 1902 a Stato e rivoluzione del 1917. Ne segue che la dittatura del proletariato nel concreto agire di Lenin si trasforma in dittatura tout court. E abbiamo visto dove portano tutte le dittature chi più chi meno.

Questo concetto viene recepito pienamente anche da Gramsci sull’Ordine nuovo nel 1919, in un articolo intitolato Democrazia operaia: ” La formula “dittatura del proletariato” deve finire di essere solo una formula, un’occasione per sfoggiare fraseologia rivoluzionaria. Chi vuole il fine, deve volere anche i mezzi. La dittatura del proletariato è l’instaurazione di un nuovo Stato, tipicamente proletario, nel quale confluiscono le esperienze istituzionali della classe oppressa, nel quale la vita sociale della classe operaia e contadina diventa sistema diffuso e fortemente organizzato.” Ecco nel pensiero di Gramsci il dado è definitivamente tratto, “chi vuole il fine deve volere anche i mezzi”! Dal punto di vista morale questa chiara espressione del machiavellismo è del tutto sbagliata. Io posso volere che mia figlia venga ammessa ad Harvard, ma se l’unico mezzo per ottenere questo risultato è quello di corrompere la commissione per l’ammissione, allora io non voglio anche i mezzi.

Questa recezione del machiavellismo è stata la tragedia del Comunismo europeo e non solo, che ha trasformato un’istanza di giustizia di importanza capitale per la nostra storia in una tragedia. E purtroppo dentro il PD e anche in molte altre parti della sinistra italiana quel machiavellismo è l’unica cosa che è sopravvissuta del comunismo.

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E CHE I RICCHI PIANGANO

Si sentono spesso espressione del tipo “e ora che i ricchi piangano”. E’ abbastanza triste che persone che comunque vivono con più di 10.000 dollari pro capite all’anno dicano cose del genere. Sappiamo infatti che al di sopra di quella soglia avere più soldi in media non aumenta molto le soddisfazioni. Persone che vivono ampiamente al di sotto di quella soglia, e nel mondo ce ne sono tante, interi paesi, come l’Egitto, che ha credo 2.000 dollari pro capite, o anche in Italia, dove sono diversi milioni, possono effettivamente esprimere sensatamente cose di questo genere. Ma se lo sento affermare da chi sta decentemente e sostanzialmente è invidioso, non lo trovo un buon modo di fare politica. Bisogna poi tenere conto di un altro problema. La redistribuzione della ricchezza quasi sempre tende a diminuirne il suo valore aggregato. Ne segue che è ragionevole ridistribuire, ma, come sostiene John Rawls, solo fino a quando la diminuzione totale della ricchezza che si ha non va a incidere sul livello di vita assoluto dei più poveri. Altrimenti redistribuire la ricchezza fa diventare ancora più poveri i poveri. E allora è come darsi la zappa sui piedi.

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MALINTESI

Ho letto con interesse il libro tradotto dal Mulino di Martha NussbaumNon per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”. Il titolo contiene un doppio fraintendimento: uno dovuto all’autrice, che in diversi punti sostiene che una formazione di base nelle scienze umane, se al breve termine non è direttamente utile a creare ricchezza, in generale, nel lungo periodo, è un elemento che, invece, può favorire anche l’accrescimento economico. Perciò “non per profitto” non è un’espressione del tutto felice. In secondo luogo, il termine americano “humanities” non significa “cultura umanistica”, ma “scienze umane”. Infatti la Nussbaum insiste sul valore formativo della logica, della teoria dell’argomentazione, della storia economica, della letteratura e dell’arte, ma da nessuna parte menziona quelli che sono i fondamenti della cultura umanistica in Italia, cioè il greco e il latino. Quasi un paradosso è l’introduzione di De Mauro, che si spertica in elogi del libro, considerandolo un contributo decisivo a favore dello studio delle lingue classiche. Probabilmente non lo ha neanche letto. Difende poi la centralità di questo studio con argomenti triti come che la nomenclatura scientifica deriva dal greco e dal latino.

Il libro è utile anche perché presenta in modo succinto e chiaro molte delle tesi fondamentali della Nussbaum, che la filosofa americana va sviluppando da molti anni in numerosi libri. Un difetto è però che non distingue fra la scuola secondaria, dove i saperi storico-letterari giocano un ruolo formativo centrale ed è un peccato che in molte parti del mondo non abbiano un ruolo significativo o lo stiano perdendo e l’università, dove lo studente deve apprendere soprattutto saperi che saranno importanti per il suo lavoro.

Nell’insieme è però un ottimo libro che ribadisce con forza l’importanza della teoria dell’argomentazione per la formazione di un cittadino realmente partecipe.

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SINISTRA E DESTRA

C’è ancora oggi una differenza fondamentale fra “essere di sinistra” e “essere di destra”. Dico che un’azione è di sinistra quando si inserisce in un programma almeno in parte consapevole improntato dal seguente principio: è possibile modificare lo status quo in modo che un domani la società in cui viviamo potrebbe essere più giusta. Tutte le altre azioni politicamente rilevanti sono di destra.

Alcuni chiarimenti. Una società è più giusta quando qualcuno fra coloro che stanno peggio va a stare almeno un po’ meglio. Dove “stare meglio” significa aumentare le proprie capacitazioni, cioè le proprie possibilità di progettare il futuro. Inoltre è chiaro che il progetto all’interno del quale si agisce non necessariamente porterà un miglioramento, ma deve essere possibile che ciò accada, almeno stando alle nostre conoscenze, e una delle ragioni per cui agiamo deve essere proprio quella del possibile miglioramento. Infine notiamo che molte azioni che compiamo quotidianamente sono quasi del tutto impolitiche, come mangiare un gelato o andare al cinema. E’ chiaro che la distinzione fra destra e sinistra si applica soprattutto a quelle azioni che sono socialmente ed economicamente più rilevanti.

Il punto fondamentale credo sia che non fa parte del concetto di sinistra la determinazione di quale sia il progetto che dovrebbe migliorare il mondo sociale attorno a noi. Stabilito che un certo tipo di Comunismo non funziona, non significa che non si possa essere di sinistra. Basta abbandonare ogni dirigismo e rendersi conto che ci sono infiniti modi di essere di sinistra.

Data la mia definizione di “azione di sinistra” sono convinto che la maggioranza degli italiani, forse il 60%, compia più spesso azioni di sinistra che di destra. Bisognerebbe costruire un’aggregazione politica capace di intercettare tutte queste forme di sinistra, senza pregiudizi nei confronti di nessuna. Allora si batterebbe l’attuale destra, che sarebbe costretta a riorganizzarsi e potrebbe diventare qualcosa di più serio, cioè un effettivo e capace partito conservatore, che a volte svolge una funzione politica tutt’altro che inutile, sia all’opposizione, sia al governo.

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L’ALTRO NON E’ PIU’ UN INTERLOCUTORE

Sento l’esigenza di pormi questa domanda: può qualcuno non essere più un interlocutore? Cerchiamo di delimitare il problema. Mi riferisco alla relazione fra due persone, come caso studio più semplice. Con il termine “ascoltare” intendo “rispondere a un racconto dell’altro che esprime un disagio con una parola di conforto, oppure reagire a un racconto che narra una gioia con una parola che notifica la propria partecipazione alla felicità dell’altro”. Con “raccontarsi” mi riferisco appunto al “rendere partecipe qualcun’altro della propria gioia o dolore con le parole”. Con “dialogo affettivo” intendo una relazione fra due persone che comporti l’ascolto e il raccontarsi. Si può definire anche il “comunicare“, cioè trasmettere all’altro informazioni mediante un codice noto, usando un canale efficace e, viceversa, “recepire“, cioè ricevere tali informazioni. Il dialogo informativo può essere efficace, cioè dare origine a una modificazione delle opinioni dell’altro. Il dialogo poi può essere fattivo, cioè dare origine a una modifcazione dei comportamenti dell’altro. Il dialogo affettivo è sempre efficace. Se il dialogo fra due persone si limita solo alle informazioni sarà un dialogo informativo, altrimenti affettivo. Immaginiamo una situazione in cui due persone, per amicizia, per amore, per condivisione di un ideale, per collaborazione, instaurino un dialogo affettivo. Tale dialogo si può interrompere per diverse ragioni: 1. Impossibilità fisica; 2. uno dei due dialoganti si nega a seguito soprattutto di un suo percorso interiore in cui le azioni dell’altro giocano un ruolo secondario; 3. uno dei due dialoganti si nega perché si sente ferito dall’altro; 4. entrambi decidono consenzienti di interrompere il dialogo. Dobbiamo poi distinguere due situazioni diverse: A. quella in cui i due sono costretti comunque a interagire – hanno un figlio in comune, lavorano nello stesso luogo ecc. – e B. non sono costretti. La domanda è quinidi: fra due persone che hanno avuto un dialogo affettivo e che devono comunque interagire è moralmente lecito che uno dei due decida di interrompere il dialogo? Risponderei così: il dialogo affettivo, se non ci sono impegni pregressi o se l’altro ha violato tali impegni, può essere interrotto. Se si è praticamente sicuri che il dialogo informativo non sarebbe efficace in un senso che riteniamo utile, anch’esso può essere interrotto. Invece, se vi è stata una promessa, il dialogo affettivo non può essere interrotto. Se si ha ragione di credere che il proprio comunicare o recepire può portare a modificare le opinioni dell’altro utilmente in una situazione in cui si è costretti a interagire, allora è necessario dialogare, almeno sul piano informativo. Cosa si può dire del dialogo informativo fattivo? Penso che sia necessario mantenerlo solo se questa fattività, per quel che possiamo capire, sarebbe utile. In definitiva credo ci siano situazioni in cui l’altro può non essere più un interlocutore, cioè quando non desideriamo più dialogare affettivamente con lui e non ci sono promesse, o le promesse sono state violate dall’altro; inoltre possiamo non considerare l’altro un interlocutore informativo se siamo sicuri che le nostre informazioni non cambieranno in meglio le sue opinioni, né i suoi comportamenti.

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I PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION

Sono stato in vacanza a Massa Marittima e lì ho scoperto che è attiva una piccola casa editrice che si chiama Edizioni Clandestine; “clandestine” perché oggi in Italia i piccoli editori fanno talmente fatica che sembrano quasi dei clandestini, come mi hanno spiegato. Ha un bel catalogo di saggistica e letteratura e prezzi contenuti. Mi ha colpito in particolare la riedizione dei famigerati “Protocolli dei savi di Sion”, ovviamente, non in chiave apologetica, ma critica, con un lungo e utile saggio introduttivo del prof. Curtotti di Ivrea. Di fatto il testo, alla cui diffusione all’inizio ha contribuito anche l’Ochrana, cioè i servizi segreti dello Zar, è stato messo a punto nel 1905 da Sergey Nilus, mistico russo, plagiando almeno al 40% un dialogo satirico del 1864 contro Napoleone III, scritto da Joly. Purtroppo, come nota giustamente Curtotti, tutte le istanze presentate nei Protocolli hanno trovato dei promotori nella politica degli ultimi cento anni. Promotori non ebrei, però: da Hitler a Stalin, da Mao a Berlusconi. Il curatore legge i Protocolli alla luce della tesi di Koselleck, secondo cui la moderna teoria politica, da Machiavelli a Hobbes e Locke, nasce come reazione al problema dei conflitti religiosi nel Seicento, per cui è necessario affrancare la politica, come istanza neutrale, dalla morale. Nasce così l’idea di ragion di stato, cioè di puro calcolo, che purtroppo, anche per il pensiero marxista è stata centrale. I Savi di Sion vengono presentati come dei super-machiavellici, che vogliono pacificamente impadronirsi del mondo. Il metodo sarebbe quello di causare disordini spingendo gli stati verso la democrazia, in modo che gli uomini, siccome non sono in grado di portare il fardello della libertà, poi si consegnerebbero come pecore nelle loro mani. Un po’ alla volta essi si impadronirebbero dei media, della scuola e della finanza e così diventerebbero signori del mondo.
Alla base di questa tesi Curtotti vede anche l’opera di De Sade e lo scacco della ragione. Cioè quella che potremmo chiamare l’incapacità del razionalismo moderno di ricostruire la morale, dopo aver scalzato i miti di ogni religione. In questo mondo disincantato tutto sarebbe permesso. Dietro ai Protocolli forse c’è anche la Leggenda del santo inquisitore di Dostoevskij, che condanna a morte Gesù redivivo, perché le masse oggi non hanno bisogno di lui: gli uomini sono degli schiavi e dei ribelli e non sono in grado di vivere la fede libera e responsabile che Egli vorrebbe donare loro.
Dunque il testo di Nilus contiene molti degli ingredienti più inquietanti della nostra epoca. Esso viene continuamente ristampato in tutte le parti del mondo a fomentare quella Giudeofobia, come la ha chiamata Taguieff, due interviste del quale sono opportunamente stampate alla fine del volume.

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L’ORRORE DEL VOTO

Mi è capitato spesso di partecipare ad assemblee che avevano una specie di terrore del voto, per cui ci si trascina in interminabili discussioni sul nulla e spesso fra due alternative entrambe con una loro logica, se ne sceglie una terza, di compromesso, che non porta da nessuna parte. E’ vero che quello che a una prima analisi appare come un bivio, dopo un po’ di disucssione può diventare un trivio o un quadrivio, cioè si possono dischiudere possibilità che prima non si era intravisto. Ma è anche vero che spesso fra due scelte non sussiste una reale via di mezzo, se non procedendo dritti contro un muro. Se in una discussione ci sono interessi contrapposti, può essere un bene continuare a dibattere evitando contrapposizioni. Ma se ci sono opinipni diverse o visioni del mondo differenti non sempre vi è una ragionevole via di mezzo fra le due parti contrapposte. in questo vero e proprio “orrore del voto” mi sembra ci sia qualcosa di curiale, cioè la ricerca dell’unanimità e del consenso tipica di alcune chiese, che non vogliono perdere nessuna pecora del gregge. Di fatto il gregge dovrebbe stare assieme solo sulla base di regole condivise di come si conduce il dibattito. Se è vero che siamo tutti uguali nei diritti, non è certo vero che tutti dobbiamo avere la stessa opinione o gli stessi comportamenti.

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IL POTERE CORROMPE

Interessante questo esperimento che mostra come chi è al potere viene naturalmente portato a usare due pesi e due misure, cioè pretendere dai suoi sudditi quello che non esige da se stesso. Aveva ragione Kant ad affermare che l’uso del potere offusca la ragione, per cui, contro Platone, i filosofi non devono stare al potere. Il principe, però, diovrebbe ascoltare il loro parere. Oggi in Italia, purtroppo, mi sembra che non capiti.

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L’INVIDIA

Leggendo la voce “Invidia” della Stanford Encyclopedia of Philosophy mi sono venute in mente queste riflessioni. Capita molto spesso che ci si trovi in una situazione di questo genere: Tizio desidera un bene che Caio possiede e Tizio sa che Caio lo possiede. Chiamiamo questa situazione “invidiogena“, cioè che può generare invidia. Può accadere che una situazione invidiogena per Tizio causi in lui il desiderio di danneggiare Caio. Spesso il danneggiare Caio consiste nel togliergli in qualche modo il bene desiderato da Tizio, ma non sempre. Questo desiderio è l’invidia. Ovvero invidia è desiderare il male di qualcuno perché egli possiede qualcosa che noi desideriamo e non abbiamo. L’invidia è un sentimento che fa male soprattutto a chi la prova ed è molto comune. Essa può essere superata almeno in parte ponendo attenzione alla felicità di Caio che possiede quel bene e al legame di amicizia con lui. Perché empiricamente è noto che l’invidia è tanto più forte quanto Tizio e Caio hanno destini simili e/o sono in contatto. L’invidia può essere anche superata facendo leva sul proprio spirito di emulazione. Cioè tentando di ottenere il bene desiderato in possesso di Caio. Il vero disastro è il comportamento invidioso, cioè il trasformare la propria invdia in un comportamento, ovvero muoversi per danneggiare Caio o trattandolo male, o parlando male di lui, oppure ordendo complotti alle sue spalle ecc. Fin qui ci muoviamo nella filosofia morale. Passiamo ora all’ambito della politica. E’ noto che molti studiosi hanno associato invidia ed egualitarismo, sostenendo che molti abbracciano quest’ultima posizione perché sono invidiosi. Questo argomento ad hominem non ha alcun valore filosofico, anche se certo potrebbe denunciare uno stato di malessere di chi è egualitarista. Si può anche ribaltare la cosa notando che la meritocrazia, cioè il contrario dell’egualitarismo, ha il difetto, di cui non si può non tenere conto, di favorire l’invidia, che è una forma di malessere e se lo scopo ultimo del pensiero politico è quello di riflettere sul modo di convivenza fra i cittadini che crea maggiore benessere, questo punto non può essere trascurato. Bisogna anche dire che spesso noi invece di superare l’invidia con i metodi che ho indicato in precedenza, la trasformiamo in risentimento, cioè ci costruiamo una giustificazione morale del nostro desiderio di danneggiare Caio. Ora, questa giustificazione morale può essere ragionevole, ma resta il fatto che Tizio continua a soffrire, quindi il risentimento spesso non è una buona strada da seguire. Se la ragione morale per togliere a Caio il suo bene ha un fondamento, e soprattutto se Tizio a casua della mancanza di quel bene è in una condizione di grave indigenza, egli, per superare la sua invidia, può anche promuovere un movimento collettivo per eliminare l’ingiustizia e questa è un’altra forma positiva di superare l’invidia.

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NON-VIOLENZA E GUERRA GIUSTA

Sono d’accordo con i teorici di origine hegeliana che sostengono che la non-violenza non può essere un valore assoluto e che esiste anche una sorta di fondamentalismo non-violento spesso parecchio ipocrita. Quantomeno ci sono forme di resistenza armata di fronte a un oppressore che è difficile condannare, come nel caso della guerra partigiana in Italia o dei movimenti di liberazione in America latina. Ciò malgrado faccio molta fatica anche ad accettare la nozione di iustum bellum, cioè di guerra giusta, che ha avuto grande fortuna da Agostino fino a Walzer. Così come Bush e i suoi seguaci ritengono giusta la “liberazione” dell’Iraq, così Mao e i suoi seguaci considerano giusta la “liberazione del Tibet”. Fra le due ritengo la seconda ancor più grave della prima, ma comunque entrambe mi sembrano inaccettabili. Mi rendo conto che quello fra non-violenza e bellum iustum sembra un dilemma che non ammette terze vie, perché o la violenza non è mai giustificata, oppure in alcuni casi è giustificata. Per ovviare al problema, forse si potrebbe utilizzare il fatto che la nozione di “giustizia” ha dei gradi, per cui non ci sono solo azioni giuste o ingiuste, ma anche azioni più o meno ingiuste o  più o meno giuste e anche azioni che non sono né giuste né ingiuste. Si potrebbe allora dire che che alcuni usi della violenza sono non ingiusti, senza sbilanciarsi ad affermare che sono giusti.

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CANFORA SUL POTERE

Ho letto “La natura del potere” di Luciano Canfora, Bari, Laterza, 2009. Un breve testo che in mezzo alle erudite citazioni dello storico dell’antichità, esprime bene il suo punto di vista politico, che a me pare sostanzialmente sbagliato. E’ interessante discuterlo brevemente, perché credo che esso sia paradigmatico per molti intellettuali italiani. Si comincia (cap. II) con la classica interpretazione marxista di Lucrezio come autore sommamente eversivo. Cosa che non riesco proprio a vedere. Canfora cita il verso III, 998 “Imperium quod inane est, nec datur unquam”, l’imperio che è illusorio e non è mai dato. Qui ci sarebbe il progetto del socialismo utopistico, cioè di un ordine nuovo! In realtà il pezzo è inserito nella tesi epicurea secondo cui viviamo le pene dell’Ade in questo mondo e non nell’altro, che non esiste. Ad esempio, vediamo Sisifo in quelli che ambiscono al potere e mai lo ottengono. Semplicemente Lucrezio ci sta avvisando dell’inutilità da parte del singolo della ricerca del potere. La sua è chiaramente una visione sostanzialmente impolitica. Ancora più paradossale l’interpretazione della fine del libro V, 1130, dove Lucrezio dice che è più tranquillo obbedire che comandare; chiaramente un invito a tenersi lontano dalla politica, senza alcuna valenza rivoluzionaria.
Nel cap. III si passa a un altro mito comunista, cioè alla distinzione gramsciana fra cesarismo progressivo e cesarismo regressivo. Alcuni, come Napoleone I e Lenin sarebbero dei dittatori, ma che portano innovazione, altri, come Napoleone III e Ahmadinejad sarebbero dei dittatori, che vanno nella direzione sbagliata. E’ chiaro che il dispotismo illuminato è la miglior forma di governo. Cioè se un dittatore agisce in coscienza è la cosa migliore, perché realizza dei miglioramenti in modo molto più efficace che qualsiasi democrazia. Il problema è che il dispotismo nove volte su dieci è “cupo” e non illuminato, per cui occorre sempre tendere verso la democrazia, che, pur non essendo così efficace come il dispotismo illuminato, è comunque in media meglio. Il cesarismo, anche se progressivo, è in realtà regressivo per quello che comporterà in seguito. Ammesso che la dittatura di Lenin sia stata un bene per l’URSS, è durata cinque anni e a lui sono succeduti Stalin, Kruscev, Breznev, che per settanta anni hanno combinato danni incalcolabili.
Nel capitolo V troviamo una circostanziata accusa nei confronti della democrazia ateniese del VI secolo a.C. (il pensiero comunista è sempre anti-democratico), che per legittimarsi ha utilizzato falsi miti fondativi. E’ chiaro che la democrazia non è mai priva di difetti e certamente le balle che raccontano quelli che la instaurano non sono un aspetto particolarmente edificante. Tuttavia la democrazia non è solo questo, ma il sistema che nelle poche volte che è stato realizzato almeno parzialmente nella storia dell’uomo ha garantito in media la massima libertà ai cittadini, libertà che è il bene più importante per l’uomo.
Il capitolo VI prende le mosse dall’idea che lo stato si fonda sempre sulla forza. A favore di questa tesi Canfora riporta Weber. In realtà Weber in La politica come professione sta dicendo un’altra cosa, cioè che lo stato è l’unico detentore legittimo degli strumenti di coercizione. La forza è una delle tante forme di potere, come ben sa chi si occupa di queste cose. Weber ad esempio distingue diverse forme di potere, da quello ierocratico a quello economico. Poi Canfora critica l’idea della divisione dei poteri dicendo che le oligarchie, che sempre detengono il potere, quando sono più sicure di se stesse concedono spazio ai poteri alternativi, quando invece sono in pericolo si trasformano in dittature. E’ una lettura semplicistica e abnorme della storia. E’ vero che alcuni tentano sempre di controllare le risorse disponibili a proprio favore e a danno degli altri, ma questo non dipende, come Canfora sembra credere, dalla struttura del sistema sociale, ma dalla natura umana. E il sistema sociale non può che tentare di arginare il più possibile questi effetti. Canfora cita con soddisfazione la massima di Napoleone secondo cui le aristocrazie si riformano sempre, dopo ogni tentativo di democratizzare la politica. Su questo ci sono pochi dubbi: bisogna infatti vigilare sempre per evitare che le oligarchie prendano il potere (come ad esempio l’oligarchia della famiglia Canfora dentro l’Università di Bari!). Non è che c’è una soluzione definitiva e palingenetica a questi cronici mali di ogni società umana.
Buona l’analisi dei mali dell’Italia, cioè di come la gente si identifichi in Berlusconi, furbo e arricchito. E anche come sostengono il suo regime più i programmi di intrattenimento che quelli di informazione.
Nel capitolo IX si spara contro i regimi parlamentari, perché in realtà sono dominati dalle élites. Va bene, ma quale sarebbe l’alternativa migliore? La canforacrazia forse?
Il libro si conclude con una sparata contro l’America. Impero che come ogni altro, prima o poi crollerà. Sta di fatto che gli Stati Uniti hanno appena saputo esprimere un’innovazione profonda, come l’avvento di Obama al potere, mentre noi abbiamo votato un’altra volta Berlusconi!

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MARXISMO E RELIGIONE

Un collega di formazione marxista ha scritto nel suo curricolo che ha avviato “una sistematica indagine sulle piú significative esperienze volte a pensare una concezione del mondo integralmente materialistica, capace di essere un reale sostituto, a livello di massa, della religione cristiana“. Provo a mettere questo progetto in connessione con la mia esperienza quotidiana in cui trovo spesso persone che votano a destra, sono religiose, spesso razziste e ciò malgrado dedicano qualche ora alla settimana al volontariato magari in una mensa per stranieri, mentre dall’altra parte chi da sempre vota comunista ed esprime in modo tagliente il proprio parere su immigrati, lavoro e cittadinanza, di fatto spesso non passa neanche un minuto della propria giornata a esprimere solidarietà. Certo, non so se la mia esperienza si possa generalizzare. E’ anche vero che il volontariato non è la maniera migliore di aiutare i più deboli, dovrebbe essere lo stato a essere strutturato in modo più giusto. Però lo stato è quello che è e se vogliamo avere qualche speranza di modificare in meglio la convivenza civile e rendere istituzionale quella giustizia che oggi è invece disattesa non ci resta che impegnarci mostrando come si possono affrontare quei problemi anche al di fuori delle istituzioni. Questo a volte è la premessa perché le istituzioni si prendano a cuore la questione. E’ anche vero che il cattolico praticante fa volontariato spesso solo per acquisire “bollini Paradiso” e non in maniera disinteressata. D’accordo, ma fra chi aiuta e chi non aiuta è sempre meglio il primo, indipendentemente dalla ragione per cui lo fa. Ma vengo al punto che mi preme di più. Le emozioni sono un po’ come i soldi. Se uno vuole guadagnarci deve investire molto a fondo perduto. Se uno tutte le sere vuol far tornare i conti di ciò che ha emotivamente dato e ciò che ha emotivamente ricevuto, un po’ alla volta si chiude in un disperato egoismo. Invece bisogna essere generosi, nel senso di Cartesio, cioè dare, che poi, quando meno te lo aspetti, ricevi indietro cento volte quello che hai dato. Spesso, non sempre, purtroppo. Il rischio indubbiamente c’è, ma nell’altro modo hai la certezza di cadere in depressione. Bene, per dare a fondo perduto, l’uomo deve avere speranze, e le speranze sono spesso irrazionali. Come ci spiega Erasmo, nell’Encomium moriae, senza la pazzia il mondo si sarebbe fermato. Dunque mi sembra che dal punto di vista antropologico un pensiero interamente materialista non può che portare alla disperazione e all’egoismo. Tanto più che il progetto di spiegazione scientifica della natura inaugurato da Democrito e proseguito da Galileo, Newton, Darwin e Einstein non dimostra il materialismo, ma lo presuppone. E sappiamo bene che la scienza naturale, nonostante i suoi straordinari successi, è ben lungi dall’aver trovato una spiegazione integralmente materialistica dell’uomo e della natura in genere.

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UN DILEMMA MORALE

Pochi giorni fa un collega, credo il suo nome sia Fabio Fantini, proponeva a un incontro con le scuole, il seguente dilemma morale. Una locomotiva in corsa senza autista sta per investire 5 persone, agendo su un cambio, la puoi dirottare su un altro binario, dove viene investita una sola persona. E’ legittimo azionare il cambio? Quasi tutti risponderebbero di sì. Ma consideriamo quest’altra situazione: la stessa locomotiva in corsa e le stesse 5 persone sul binario che stanno per essere investite. Questa volta ti trovi però su un ponte sopra la ferrovia accanto a un signore grasso. Se lo spingi giù la locomotiva deraglia, le 5 persone vengono salvate e il signore grasso ci rimette le penne. E’ legittimo buttare il tuo compagno di sotto? Quasi tutti risponderebbero di no, anche se la contabilità positiva delle vittime è sempre la stessa, cioè 5 contro 1. Credo che questa sensibilità morale abbia anche un fondamento politico, di sicuro giuridico. Se butti giù il signore grasso, infatti, verrai sicuramente incriminato di omicidio volontario. Magari non ti prendi molti anni perché hai delle forti attenuanti, ma la tua azione è senz’altro un delitto. Ma c’è dell’altro. Se butti giù il tuo compagno, in un certo senso, legittimi l’omicidio e il fatto che l’uomo, invece di essere un fine, possa diventare uno strumento. Storicamente, quando si è fatto così, si pensi a Lenin e a come ha “salvato” la rivoluzione di ottobre, i successori (Stalin) continueranno ad ammazzare la gente con le più diverse scuse, anche se i 5 da salvare non ci sono più. Questa credo che sia la lezione della storia.

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LA VALUTAZIONE POLITICA DI UN FATTO DEL PASSATO

Quando si valuta un evento del passato, che so, ad esempio, l’uccisione di Gentile da parte del partigiano Fanciullacci, di cui anche oggi si discute sul Corriere della sera, occorre distinguere almeno quattro piani. Innanzitutto quello giuridico: date le leggi vigenti nel territorio in cui è accaduto il fatto e tenuto conto anche della distinzione fra diritto marziale e diritto in tempo di pace, occorre valutare giuridicamente ciò che è accaduto. Non che sia facile, perché spesso le norme sono vaghe o contraddittorie, bisogna anche tenere conto di molti fattori ecc. Poi c’è il paino morale: l’azione va valutata dal punto di vista umano; l’avrei fatto anche io? In quel contesto era una cosa accettabile? E’ stata rispettata la dignità umana? ecc. Spesso questo aspetto, per ciò che riguarda il passato, non è tanto rilevante. Inoltre c’è il piano storico: come sono andate effettivamente le cose, quali sono stati i fattori causalmente rilevanti in gioco? La valutazione storica è premessa essenziale per la valutazione politica. E qui vengono veramente le difficoltà. Bisogna stare attenti, nella valutazione politica, a non utilizzare i controfattuali, cioè a non prendere le mosse da valutazioni del tipo, “ma se Tizio non avesse fatto così, che cosa sarebbe successo?” In fondo quella scelta da Tizio era l’unica strada possibile. Si arriva così a una sorta di determinismo storico. In realtà noi non siamo in grado di valutare in positivo quali avrebbero potuto essere le alternative migliori, perché epistemologicamente è molto difficile, se non impossibile, costruire la storia controfattuale, cioè rispondere a domande del tipo “Che cosa sarebbe successo se Napoleone avesse vinto a Waterloo?”. D’altra parte l’uso di generalizzazioni storico-sociali, come ha spiegato Weber, ci aiuta a comprendere quali sono state le conseguenze di certe scelte, cioè quali sono i fatti che, se non si fosse agito in quel modo, di sicuro non sarebbero accaduti. Bene: a questo punto prendiamo l’insieme delle conseguenze di un evento e valutiamolo. Se questo insieme è globalmente positivo, allora la valutazione politica non può che essere positiva, se è negativo viceversa. Quali sono i criteri sulla base dei quali formulare queste valutazioni? Beh, giustizia sociale, democrazia e libertà, cioè capacità di accedere ai beni, capacità di decidere su come vivere assieme, capacità di progettare la propria vita. Ci possono poi essere delle divergenze, perché un pensatore socialista darà più importanza alla giustizia sociale e un liberale più alla libertà nel valutare le conseguenze di ciò che è accaduto. Credo però che, ciò malgrado, spesso la valutazione politica così intesa di molti fatti storici è fin troppo semplice.

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