LE CAUSE DELLA CRISI

Oggi i filosofi usano molto il concetto di causalità, che a mio parere, è invece, abbastanza pericoloso. Comunque vorrei soffermarmi su un caso particolare e di uso comune, cioè l’utilizzo di questa nozione nella riflessione politica. Ad esempio, dal 2008 stiamo vivendo una crisi economica strutturale, con alti e bassi, quali sono le cause? Prima di tutto ci sono le cause occasionali; nel caso specifico la catena dei prestiti nel mercato immobiliare anglosassone e il conseguente fallimento della Lehman. Che cosa significa “causa occasionale”? Vuol dire che date le stesse condizioni generali, ceteris paribus, molti altri fattori locali avrebbero potuto svolgere il ruolo di innesco della crisi, magari un po’ prima o un po’ dopo e in maniera un po’ diversa. Poi ci sono le vere cause, cioè quelle che se non ci fossero state, l’episodio non sarebbe mai stato possibile, cioè la conditio sine qua non; nella fattispecie la vera causa è l’accesso al benessere di altri tre miliardi di persone, il famoso BRIC, Brasile, Russia, India e Cina, che ha creato una strutturale sovrapproduzione di manufatti a basso e medio contenuto tecnologico. Dal punto di vista politico, quando si discute sulla causa di un evento, ci si appunta per lo più alla causa occasionale, e si ritiene che per risolvere la crisi sarebbe sufficiente eliminare quella. E’ una via comoda, perché la causa occasionale è spesso superficiale e congiunturale e quindi facile da rimuovere. Infatti oggi tutti dicono che per risolvere la crisi bisogna regolamentare il mercato finanziario, per impedire le speculazioni. Il che sicuramente è una buona cosa, ma di certo non risolve la crisi, che ha origini ben più profonde. Da un punto di vista politico molto meglio sarebbe riflettere sulle vere cause e provare a immaginare dei modi per annullare quell’effetto. E’ più scomodo e difficile, ma di certo più fruttuoso. Le vere cause non sono rimovibili, bisogna invece pensare e immaginare strade diverse. Se la vera causa della crisi è l’accesso al benessere di altri 3 miliardi persone nel mondo oltre al miliardo che c’era già prima, la soluzione potrebbe essere investire in conoscenza e innovazione con ricerca, come hanno fatto in Germania e Stati Uniti, che infatti sono paesi che riescono a contenere i danni della crisi. Ma forse ancora più radicale, sarebbe immaginare e realizzare un modello di sviluppo non più basato su indici monetari, come il PIL, ma su indici che misurano la qualità della vita, come hanno sostenuto fra gli altri la Nussbaum e Sen.

1 Commento

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Una risposta a “LE CAUSE DELLA CRISI

  1. pibond

    Ritengo che solo la seconda ipotesi sia corretta: la prima resta inattuabile e dannosa se non ci si accinge a percorrere anche la seconda. La Germania investe in innovazione e ricerca essenzialmente per introdurle in altri paesi, e così ottenere un maggior profitto con merce che reimporta, escludendo dal generarle nel suo interno sfruttando risorse proprie naturali, energetiche e, soprattutto, umane perché meno redditizie. L’aumento della disoccupazione trascinerà quello della povertà e ciò sta già causando, in quel paese, nel nostro e negli altri dell’UE, un generale decadimento della qualità della vita. Taccio su altre cause del fenomeno perché altri, meglio di me, sono informati sui fatti, per porre l’accento, invece, su quanto magistralmente Vincenzo richiama relativamente alle proposte di Martha Naussbaum e di Amartya Sen nell’immaginare un modello di sviluppo non più basato su indici monetari, come il PIL. Trattasi di superare questo modello con l’analisi dell’interazione delle forze endogene ed esogene agenti sulla società ora irreversibilmente globalizzata. Secondo costoro occorre che le nazioni, attraverso la famiglia, l’istruzione e alle libere associazioni costituite fra i cittadini, reimpostino le azioni di propagazione economica e sociale perché ogni persona abbia l’opportunità di disporre del necessario per una elevata qualità di vita di tutti, per il benessere e per la felicità che ognuno coltiva nell’ambito del proprio progetto personale. In tal modo si abbandonerà il percorso tortuoso che la politica contingente traccia nel moltiplicare gli interventi pubblici attraverso la leva fiscale nel porre rimedio ai disagi di questa o quella categoria sommosse dalle turbe economiche e finanziarie, e dai sommovimenti politici che ne derivano. Si formerà un nuovo archetipo in cui la società umana non sia più suddivisa in ceti o classi, ma si ricostituisca attorno alle etnie esistenti come insieme di persone libere e consapevoli dotate di senso di dovere inteso come volontà di agire per il benessere dell’altro oltre che per il proprio. Ben venga il pensionamento del PIL come unico indice di efficienza e ben venga ricavarlo dalle variazioni degli elementi che lo formano. Per noi italiani, già separare il debito pubblico da quello privato, significherebbe arrestare la tesaurizzazione del risparmio, la straripante fuoriuscita senza rete di capitale e l’arresto di prelievo fiscale che utilizza la ricchezza per mantenere la spesa improduttiva, gli sprechi e il pagamento degli interessi sul debito pubblico.
    Propongo questo mio commento, anche sul mio blog, al quale faccio seguire considerazioni sulla ricchezza e sulla povertà.
    http://pibond.blogspot.it/2012/05/tassare-i-ricchi.html

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