LA CONSAPEVOLEZZA DELLA STORICITA’

La storicità di qualcosa è il suo essere legato a tutta una serie di altre istanze che sono tipiche di un determinato tempo. La consapevolezza storica è perciò la coscienza di tale storicità. Al riguardo Fabio Todesco mi ha fatto capire una cosa importante. Difficilmente una nazione acquisisce consapevolezza storica se non attraverso la riscoperta del passato. Mi spiego meglio. Una cultura che prosegue indisturbata il suo percorso, nonostante le evoluzioni che subisce, mantiene una sorta di consapevolezza della propria identità, per cui difficilmente si renderà conto della storicità di ciò che le è avvenuto magari 500 anni prima. Se invece tale cultura passa attraverso una fase che potremmo definire – mutuando il termine dal bel libro di Gombrich – rinascenza, cioè il rendersi conto che nel passato c’è stato qualcosa, che ora è andato perduto, e che può e deve essere recuperato, allora diventa chiara la storicità di quell’aureo passato. Così, ad esempio, il cittadino urbinate privo di cultura – e capita spesso – è ancora convinto di essere storicamente erede dell’epoca di Federico da Montefeltro. Oppure quei paesi europei, come ad esempio la Grecia, che non sono passati massicciamente attraverso un processo di rinascenza, sono convinti di essere gli eredi di Omero e Aristotele. Invece Italia, Francia e Inghilterra, che hanno subito il processo del Rinascimento, almeno nelle classi più colte, hanno la consapevolezza della storicità, cioè sanno che gli antichi romani o i vichinghi o i galli non c’entrano praticamente nulla con i loro conterranei contemporanei.

30 commenti

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30 risposte a “LA CONSAPEVOLEZZA DELLA STORICITA’

  1. Ho dovuto rileggere il passo tre volte per inquadrare ciò che intendevi dire.
    Tu sostieni, giustamente, che ogni periodo storico è imprescindibilmente legato agli eventi del suo tempo. E’ quindi sbagliato decontestualizzarlo e peggio ancora attualizzarlo e portarlo in una realtà storica completamente differente.
    Però quando si è presa coscienza della storicità cosa accade? Una cultura migliora o peggiora? E’ in grado di plasmarsi prendendo spunto dalle idee passate e non ripetendo gli errori già fatti? Perchè guardando all’Italia non si direbbe proprio.

  2. Provo a cimentarmi in questo guazzabuglio dove Vincenzo ci ha cacciati.
    Guazzabuglio, perchè nella successione di epoche storiche che menziona non sembra esserci nessun filo logico, come invece, gli eventi storici si sviluppano secondo un ordine alternato di fatti imprevedibili che ne rompono la continuità.
    Parlare di Rinascimento oggi è come parlare di Cultura greco-romana. Le lotte tra le Signorie del Rinascimento, così interessanti per Machiavelli hanno importanza solo per chi abita sugli antichi loro territori.
    Federico da Motefeltro a Urbino, i Malatesta a Rimini, i Riario a Imola, gli Este a Ferrara, i Gonzaga a Mantova, i della Scala a Verona e – dulcis infundo – ai più importanti Borgia Medici, Visconti e Sforza (scritti a memoria: bacchettatemi se ne ho dimenticato qualcuno). Ma non è questa la storicità, a meno di considerarla sotto il profilo folcloristico e cultural-turistico.
    La storicità è quella che nasce dalle radici culturali che si sono svolte nel processo storico, per quegli elementi che sono ancora pregnanti di attualità.
    Cosa dire del Cristinesimo e dell’Islam, oggi?
    Chi non ricorda i Saraceni che infestavano le nostre coste lungo le quali ci sono ancora le antiche torri omonime? Ad Arezzo si svolge periodicamente la Giostra del Saracino e oggi abbiamo qualche problema a Bologna dove qualcuno pensa di chiamare un pittore che, nel Duomo di Bologna, faccia salire Maometto in paradiso (e non basterebbe nemmeno questo provvedimento perché l’Islam è iconoclasta).
    Prima delle Twin towers, c’era ancora chi pensava che la religione non avrebbe avuto più alcuna importanza politica e la laicità degli Stati avrebbe risolto tutti i problemi esistenziali dell’umanità.
    Anche nel 1789, si pensava che tutti i problemi si sarebbero risolti trasformando le monarchie in repubbliche e cacciando nobili, preti e suore. Qualche anno dopo ci fu la Restaurazione. Poi seguì l’era del Proletario, che unito e compatto avrebbe abolito la borghesia. E’ successo che il proletario si è imborghesito. Tutto ciò prima o poi passerà nel dimenticatoio. Chi mai rivendicherà radici giacobine? … e, quelle comuniste, siamo lì, … e poco ci manca.
    Tutti hanno nella mente, in modo più o meno chiaro, la storia del proprio passato remoto.
    Anche quel contadino della campagna di Tuscania che sembra il sosia dell’antico etrusco raffigurato sul coperchio di un sarcofago esposto al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. La sua storia è più antica della nostra e noi la conosciamo meglio di lui perché la vita sua è uguale a quella di tutti i suoi progenitori, e le sue radici affondano a prima della fondazione di Roma.
    Non parlategli di Rinascimento.
    Ne sa qualcosa solo se qualcuno glielo dice e lo manda a Roma a pregare nella Basilica di S.Pietro.
    ———–
    In tutto questo guazzabuglio di radici cultural storiche, la scuola che ci sta a fare?
    A me, da piccolo, hanno insegnato che la storia cominciava dall’anno I dell’era fascista il 28 esimo giorno del mese di ottobre (anno 1922 d.C) quando la famosa Marcia giunse a Roma dove Mussolini attendeva l’evento per proclamare la fondazione del Fascismo; ai miei figli hanno tentato di insegnare quella più Lunga di Mao Tse Tung.
    Benito Mussolini e Mao Tse Tung: entrambi grandi criminali della storia.
    Che belle radici!

  3. Dai, non puoi definire criminali Mussolini e Mao soltanto perchè hanno perseguito i loro sogni di grandezza. Per me, i criminali esistono soltanto al tempo presente (l’argomento è così interessante che penso andrò a scriverci due righe sul blog).

  4. In effetti l’argomento del crimine merita una trattazione a sé!
    Il crimine nasce dalla cenere che resta dai sogni di gloria generati dall’utopia.
    Ma questa proposizione è giudizio o consapevolezza?
    Tu pensi che nella cenere prodotta dal fascismo o dal comunismo, resti qualche legnetto utile o benefico?
    Siamo consapevoli che il fascismo o il comunismo siano entrambi generatori di crimini contro l’umanità?
    Vincenzo propone di parlare di “Consapevolezza della storicità” e tutti possiamo affermare di essere consapevoli che entrambe le utopie hanno generato enormi sacrifici per i popoli che ne sono stati interessati.
    Tu pensi che Napoleone non sia stato anche lui un criminale?
    Hai letto Guerra e pace?

  5. Sicuramente fascismo e comunismo hanno lasciato in eredità tante cose utili, tante idee e tante realizzazioni materiali. Nessun movimento è mai soltanto generatore di crimini, fosse anche solo per il fatto che l’idea di base è nata per altri scopi.
    Sinceramente non ho mai pensato a Napoleone come ad un criminale. Direi invece un grande capo di stato e grande conoscitore dell’arte della guerra. Forse un po’ megalomane ma non certo un uomo votato al crimine. E poi osava definirsi Imperatore: già solo per questo lo avrei seguito in capo al mondo. Capisci, Imperatore mica Re; i reali li mangiava a colazione.

  6. “Capisci, Imperatore mica Re; i reali li mangiava a colazione.”

    Il che rinnova la mia convinzione che in fondo, per moltissimi e per molti versi sorprendenti versi (dalla visione politica all’idealizzazione dell’amata) tu sia fondamentalmente un’inconsapevole reincarnazione di Dante.

  7. diciamo che sono soltanto un folle.
    O forse sono soltanto uno a cui piace seguire il pesce più grosso.

  8. Re si nasce; imperatore si diventa. Il re segue una tradizione storica, l’imperatore segue un programma utopico. Le vittorie si inseguono a vittorie e più sono più aumenta la sete di gloria e di potenza sino a raggiungere un punto di non ritorno dove succede il crollo.
    La strategia militare non ammette il crimine; considera solo il bottino e le perdite. Il borrino serve a pagare i soldati; le perdite si misurano in termini di terribilità.
    Terribilità, non criminalità.
    La storia cancella la terribilità, ma non la criminalità.
    Kara pensa che Napoleone, Stalin, Mussolini e Hitler hanno dato un forte scossa all’evoluzione storica. Certamente, ma tutto è evoluto in senso contrario alle loro balzane ideologie progettate per stare al potere.

  9. La frase alla quarta riga del commento n. 8 “Il borrino serve a pagare i soldati; le perdite si misurano in termini di terribilità.”, va letta come segue: “Il bottino serve a pagare i soldati; le perdite si misurano in termini di terribilità.”

  10. Preciso anche nelle correzioni ortografiche! Bravo.
    Non concordo sul fatto che re si nasca. Così dicendo fai il loro gioco, investendoli di un’aura che non ha senso di essere. Meglio un megalomane imperatore che un re che si crede tale per diritto di nascita.

    Giusta osservazione quella sulla terribilità (è un neologismo?). Sinceramente non ho mai capito fino in fondo questa tendenza moderna di voler legalizzare ed imbrigliare nella giurisprudenza la guerra, i suoi atti e le sue conseguenze. La guerra è sopra a tutto ciò che si considera crimine; sopra non in senso positivo, ma nel senso che andrebbe giudicata con standard completamente differenti da quelli usati in tempi di pace. Diciamo agiuridica (con a privativa).
    L’evoluzione in senso contrario è la naturale risposta della società a certe forti e repentine spinte. Non si differenzia di molto da un qualsiasi sistema fisico.

  11. Sommessamente, ritengo che il senso della storicità – riprendendo il tema posto da Pibond nel suo primo commento – sia proprio quello che ci affranca da supposte (cioè affermate, ma non dimostrate) “radici” culturali o ideologiche (così come ci affranca dalla falsa idea che noi siamo i discendenti di Giulio Cesare!).

    Provo a spiegarmi con un esempio di attualità: un consapevole senso della storicità non può non portare a stigmatizzare l’uso e l’abuso della concezione del “diritto naturale” e la sua confusione con le “radici cristiane” dell’Occidente. Basta, infatti, aver consapevolezza che il giusnaturalismo settecentesco non è in alcun modo sovrapponibile alla scuola tomistica del diritto naturale per smascherare la mistificazione in atto.

    Mentre, infatti, la tradizione cristiana (e cattolica in particolare) ha sempre privilegiato l’aspetto oggettivo del diritto naturale come “legge di natura” (intesa come legge divina), il giusnaturalismo ne ha, al contrario, evidenziato l’aspetto soggettivo come “prerogativa naturale della persona”. Mentre la legge di natura è immutabile ed eterna, i diritti naturali sono sempre in fieri (perché si trasformano, si accrescono o diminuiscono in relazione ai mutamenti culturali ed alla sensibilità degli uomini che compongono una certa società).

    Occorre fare molta attenzione sul punto, perché l’individualismo di scuola illuministica e liberale (e la tematica dei diritti umani) nasce proprio dalla congerie di studi del giusnaturalismo, che – lo si ripete – non fornisce una interpretazione univoca, immutabile ed eterna dei diritti dell’uomo (e, si sa, che contro queste concezioni la Chiesa si è scagliata violentemente fino al Concilio Vaticano II, dopo il quale – preso atto del grande successo del modernismo – si è solo timidamente aperta alla “modernità”).

    Oggi, dunque, la Chiesa – nel disperato tentativo di recuperare il terreno perduto – cerca di appropriarsi di una tradizione (e farla passare come la “radice” cristiana dell’Occidente laico, pluralista e liberale) estranea alla sua storia (e che, anzi, rappresenta la cifra distintiva del campo “nemico”), ergendosi ad alfiera della difesa dei diritti umani. La nuova sensibilità del clero verso questi temi non può che far piacere. Ma non si può negare che l’operazione sia condotta con ambiguità e spregiudicatezza, e soprattutto con poco riguardo per la tenuta logica del novello edificio concettuale, visto che la cultura cristiana non è centrata sull’individuo e la sua condizione terrena (temi, invece, centrali nell’elaborazione giusnaturalistica ed illuministrica), ma sull’anima e la sua salvezza ultraterrena; non sul transeunte, ma sull’eterno; non su verità relative, ma sulla Verità assoluta.

    Il risultato – abbastanza evidente (per chi abbia consapevolezza della storicità delle diverse concezioni) – è, almeno per ora, rappresentato da una serie di corto circuiti logici.

    Ad esempio, al vetusto (e mai abbandonato) canone dell’omnis potestas a Deo, si affianca il tema dei diritti umani. Mentre il primo principio consente alla Chiesa (“pioniera” dei diritti umani) di legittimare gente del calibro di Pinochet e Fidel Castro, la concezione dei diritti dell’uomo (diametralmente opposta a quella dell’omnis potestas a Deo) costituisce la base di tutte le concezioni democratiche, in cui il potere viene dal basso e non dall’alto.

    Alle recenti (e sorprendenti) aperture alla democrazia politica si contrappone il fatto che lo Stato della Città del Vaticano sia una monarchia assoluta e che il magistero della Chiesa non assomigli affatto ad una democrazia.

    All’antidogmaticità in cui si sostanzia la laicità (e che costituisce l’altro fondamento della democrazia politica e della libertà), la Chiesa contrappone il dogmatismo della Verità rivelata, di cui essa è unica depositaria ed interprete. Ancora una volta ritorna, qui, sia il tema dell’omnis potestas a Deo, sia la negazione della libertà di ricerca e di manifestazione del pensiero, visto che nella dialettica tra fede e ragione è quest’ultima a dover cedere il passo alla prima.

    Alla lotta senza quartire al Relativismo (mai che qualcuno ci spiegasse cos’è per davvero! o che ci spiegasse che la tematica dei diritti umani è sommamente relativista) si oppone l’uso di argomenti relativistici per giustificare il passato, non sempre cristallino, della stessa Chiesa (si veda l’intervista rilasciata da Monsignor Rino Fisichella a Repubblica il 31 ottobre 1998).

    Ecco, a mio modestissimo parere, la consapevolezza della storicità è proprio il trionfo del relativismo (non dello scetticismo a buon mercato) e la presa d’atto che le radici culturali servono a nutrire e non ad affamare il Pensiero. La consapevolezza della storicità è la consapevolezza di un incessante fluire delle idee, e di un loro continuo travolgimento che costituisce l’unico fondamento immutabile della tradizione occidentale.

  12. Porcaccia miseria, con questo commento hai messo in crisi la mia idea di essere un giusnaturalista. Purtroppo non ho nacora trovato il tempo per approfondire l’argomento ma ero convintissimo che quella disciplina filosofioc-giuridica ponesse come base l’ipotesi che ci fossero delle leggi naturali valide per tutti in quanto tutti esseri apparteneti allo stesso mondo naturale.

    Gianluca tu dici: “la presa d’atto che le radici culturali servono a nutrire e non ad affamare il Pensiero. La consapevolezza della storicità è la consapevolezza di un incessante fluire delle idee, e di un loro continuo travolgimento”.
    Io interpreto questa frase come: cresciamo attraverso il passato ma non con esso. La continua messa in discussione dei nostri principi è allo stesso tempo un potente motore di spinta in avanti ed la garanzia che principi antichi ancora attuali siano realmente validi. Un’idea veramente interessante.

  13. Io che ho passato la mia vita di lavoro nel settore elettrico, dovrei avere una certa qual competenza in materia di cortocircuiti.
    Mi ero fatta una certa idea separando la ricerca su due impianti distinti dove ho cercato minuziosamente di verificare tutti i contatti, quando Gianluca Navarrini, ricompattando il tutto, ha provocato un sconvolgimento tale da dover rimettere in ordine il tutto ripartendo da zero?
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    Non credo questo e provo a spiegarmi meglio.
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    A mio parere Dio e natura non sono la stessa cosa. Per questa ragione attribuisco al trascendente tutto ciò che riguarda Dio e all’immanente tutto ciò che è natura. Io lavoro su questo duplice impianto che penso abbia funzionato benissimo sino al 1789. Poi sono successe delle cose sulle quali si è creduto di far funzionare le cose umane su un impianto unico, pensando che tutti i guai dell’umanità stavano appunto sull’esistenza di due impianti. Due rivoluzioni grandi e qualche decine di rivoluzioni più piccole hanno sostituito gli ordini (nobiltà, clero e gli altri) con le classi (borghesi e proletari), e quanto a Dio, ognuno pensi per sé! Così sono nate le ideologie, l’ultima delle quali, la peggiore, quella relativistica.
    Da allora siamo in perenne cortocircuito.
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    Gianluca dice:
    “Alle recenti (e sorprendenti) aperture alla democrazia politica si contrappone il fatto che lo Stato della Città del Vaticano sia una monarchia assoluta e che il magistero della Chiesa non assomigli affatto ad una democrazia”.
    Ha ragione. Ma la componente sociale vivente nello Stato del Vaticano, ha bisogno di una forma di Stato diversa? Così è anche per il Principato di Monaco, per la Repubblica di San Marino. Ogni stato si dà la forma giuridica che risulta dalla reattività espressa dalla società nell’organizzarsi secondo uno schema d’intenti compreso in un sistema etico condiviso.
    Questo schema è tanto più complesso quanto più sono complessi gli aggregati sociali, ma – è questo un punto fermo che regge tutto il mio pensiero – il sistema etico è immutabile e contenuto nei dieci comandamenti ordinati da Dio attraverso Mosè.
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    Troppo semplice?

  14. Veramente tu fondi il tuo concetto etico su ciò che dice la Bibbia?

  15. sara

    Leggendo questa frase di Saint-Exupéry, mi è tornato alla mente questo post.
    In “Pilota di guerra” così dice: “Perché avviene di una civiltà la stessa cosa che avviene del grano, il grano nutre l’uomo, ma l’uomo a sua volta salva il grano, di cui ripone la semenza. La riserva di semi è rispettata di raccolto in raccolto, come un’eredità”.
    Sulle altre questioni, radici cristiane dell’europa, ecc…., spero di tornarci con più calma

  16. Riservandomi di tornare – non so quando – sulle altre questioni, mi preme rispondere a Sara (che a sua volta si riserva) che troppo spesso si tende a suggestionare l’interlocutore più che a fargli intendere chiaramente il nostro pensiero. Il passo di Saint-Exupery è molto bello proprio perché suggestivo; suggerisce cioè un parallelismo (non solo etimologico) tra cultura e coltura. Lo stesso passo, però, non deve essere frainteso e, a mio modesto parere, va opportunamente precisato.

    Giova osservare (e non mi pare sia osservazione particolarmente originale) che la semenza, per fruttificare, deve necessariamente cessare di essere tale (deve, cioè, morire). Ciò che viene conservato, dunque, non è la semenza originaria (che non esiste più), ma parte del nuovo raccolto. E se si analizza il ciclo biologico ci si accorge che di generazione in generazione anche il patrimonio genetico del grano non rimane esattamente uguale a se stesso, ma – per via di piccoli errori di “copiatura” del DNA – si trasforma (e tante piccole trasformazioni cumulate, per effetto della cosiddetta selezione naturale, possono condurre – nel corso di millenni – alla identificazione di una nuova varietà vegetale o alla semplice evoluzione migliorativa di quella originaria).

    I tempi dell’antropologia sono molto più brevi di quelli della biologia. Il frutto dell’elaborazione culturale (e, con ciò, intendo la costruzione di un sistema di valori) deve a sua volta farsi semenza, trasmettersi alle nuove generazioni e poi morire per poter dare un altro frutto. Quest’ultimo sarà molto simile al suo genitore, ma non identico. E, infatti, nel corso dei secoli – non dei millenni – si registrano mutamenti non piccoli nei sistemi culturali. Tali mutamenti sono tanto più rapidi e profondi, quanto più il sistema culturale è “aperto” (taluno, ad esempio, ha paragonato l’Atene di Pericle alla “società aperta” di Popper); meno rapidi e profondi, quanto più il sistema culturale è “chiuso” (e, qui, potremmo dire che Sparta rappresentava una forma di “società chiusa”).

    Al di là della banale osservazione che – al contrario di quello ateniese – il sistema di valori spartano non ha dato frutti duraturi, ti stupirà apprendere che io sono profondamente convinto della bontà della frase di Saint-Exupery. Basta intendersi su quel che essa significa.

  17. Provo a sciogliere la riserva formulata poco fa ed a rispondere, in breve, a Karagounis ed a Pibond.

    Al primo confesso che mi sono limitato a leggere alcune pubblicazioni interessanti, anche se non esoteriche (a partire dalla voce Giusnaturalismo, redatta da Guido Fassò per il Dizionario di Polica curato da Bobbio, Matteucci e Pasquino). Quanto al mio “relativismo”, si è formato nel corso degli anni leggiucchiando qua e là (ma il colpo di grazia mi è stato assestato dalla lettura di Russell e Severino).

    Al secondo dico, da giurista, che i dieci comandamenti (o, se preferisce, la legge romana delle dodici tavole o il babilonese codice di Hammurabi) sono sistemi rigidi di ordini e divieti (di sedicente origine divina) utile ad addomesticare un gregge di sudditi. In questi sistemi normativi, infatti, la libertà dell’Uomo (nella forma del diritto soggettivo) non è contemplata.

    Nei dieci comandamenti, ad esempio, non si dettano regole per la distribuzione dei beni, ma si vieta di desiderare la roba di un altro (instaurando, così, la barbara pratica del processo alle intenzioni). Non si dice, però, come si possa determinare l’altruità di una cosa: a quanto par di comprendere la divinità si rimette – per queste cosucce volgari – all’autorità civile. In altre parole (e schematicamente):
    a) Dio dice di non desiderare la roba degli altri, ma non stabilisce in alcun modo come si fa a distinguere il mio dal tuo;
    b) il mio dal tuo lo si distingue in basa alla legge umana varata dal re (imperatore, duce, presidente, o chi per esso);
    c) la legge umana diviene presupposto per l’applicazione di quella divina, sicché la punizione divina colpirà chi desidererà quelle cose che le leggi umane hanno attribuito agli altri.

    Lo stesso ragionamento vale per il comandamento di non rubare, visto che non è concepibile il furto di cosa propria.

    Ma ragionamenti non diversi sono implicati:
    a) dal comando di onorare il padre e la madre, visto che – da che mondo è mondo – il rapporto di filiazione non è biologico, ma giuridico (prevengo possibili obiezioni invitando a riflettere sul fatto che Mosè era giuridicamente nipote del Faraone);
    b) dal divieto di desiderare la moglie di un altro, visto che il concetto di coniuge non esiste in natura e lo stabilisce la legge (evidentemente non quella divina, però);
    c) dal divieto di pronunciare falsa testimonianza contro il nostro prossimo (che non è genericamente il divieto di mentire, ma proprio quello di non testimoniare il falso dinanzi ad un giudice), senza che però da nessuna parte la divinità si senta in dovere di precisare che un simile divieto vale solo nel “giusto processo”, non anche dinanzi all’inquisizione! (Anzi: si veda quanto esposto in Deuteronomio, XVI, 18-20 e XVII, 8-13).

    Quanto al “non uccidere”, benché la formulazione appaia assoluta e priva di eccezioni, è sufficiente leggere quanto lo stesso Dio dispone in Deuteronomio, XX, 10-18.

    Quale etica possiamo fondare, qui ed ora, su regole la cui formulazione fa rabbrividire anche un modesto maniscalco del diritto come me?

  18. Veramente bello questo intervento Gianluca. Illuminante se posso dire. Pur avendo letto alcune critiche ragionate di Genesi e Vangelo non avevo mai incrociato queste riflessioni sui 10 Comandamenti. Ora che le porti alla mia attenzione non posso che trovarmi d’accordo: una legge “divina” che richiama leggi terrene non meglio specificate. Questo dovrebbe dimostrare ancora una volta l’infondatezza di tutta la dottrina cattolica.

  19. Kara, devi specificare in quale veste stai parlando.
    Io nella veste di sociologo e ho scritto.
    Comunque i dieci comandamenti non uccidono la libertà, perchè si é liberi di fare tutto ciò di cui non è espressamente vietato. Non è una libertà, quella di uccidere, né quella di rubare.
    Senza i comandamenti non si è liberi perchè a questi la legge imporrebbe di fare solo ciò che la legge consente di fare (la costituzione sovietica ed in parte la costituzione italiana ha queste caratteristiche).
    Per ultimo, osservo che non ho visto citato il secondo comandamento, che è la vera fonte della libertà: “fai agli altri quello che vuoi sia fatto a te”.
    Ne abbiamo già parlato qui https://viverestphilosophari.wordpress.com/2008/07/04/fai-agli-altri/
    Tu parli come filosofo o psicologo?
    Io lo so: come ingegnere!
    Se pensi di pianificare la tua vita o quella di tua futura moglie con i principi che manifesti, avrai notevoli difficoltà nel tuo avvenire.

  20. A) Per Kara:
    non concordo con le tue conclusioni sull’infondatezza della dottrina cattolica (che non si basa solo sul decalogo) e mi chiedo se possa mai avere un fondamento (razionale) una dottrina etica (io ci sto pensando da qualche anno e, ancora, non lo so).

    B) Per Pibond:
    a) la Costituzione italiana non ha affatto le caratteristiche che tu dici (basta leggere gli art. 2, 3 e 23 – quest’ultimo, in particolare, spesso sottovalutato dalla stessa dottrina costituzionalistica – per rendersene conto);
    b) non so a quale secondo comandamento tu faccia riferimento (nei dieci che io conosco quello che tu ora richiami non c’è), ma so che non è un buon metodo quello di mutare in corsa l’oggetto della discussione: io mi sono soffermato sui dieci comandamenti dettati a Mosè e da te invocati come fondamento di una morale universale immutabile;
    c) sono, in ogni caso, pienamente d’accordo con te sul fatto che il “comandamento” da te da ultimo richiamato sia fonte di libertà. Ma in quanto prescinde dalla divinità per conferire all’uomo (ed alla sua volontà) la misura del giusto e dell’ingiusto. Infatti, per stabilire ciò che vorrei fosse fatto o non fatto a me non ho bisogno di consultare l’oracolo di Delfi o la sibilla cumana, nè mi servono le sacre scritture. Me lo dice la mia stessa Natura (che, dunque, pur senza essere trascendente, può suggerirmi le regole di condotta della mia esistenza). Giova osservare che quel che io vorrei mi fosse (o non mi fosse) fatto potrebbe non coincidere con quanto tu desideri ti fosse o non ti fosse fatto. E, così, siamo di nuovo al punto di partenza: può esistere una regola (morale) universale ed immutabile? Io penso di sì (il tuo “comandamento” mi pare una buona base di partenza), ma forse non occorre cercare un contenuto precettivo universale, ma un metodo universale di individuazione delle regole (che però possono mutare nel tempo o, anche, essere diverse in luoghi diversi).

  21. Mi inserisco (antipaticamente) trovandomi costretto ad osservare che l’analisi di Gianluca dei dieci comandamenti mi pare (da giurista) di una barbarie e una scolasticità che fa a pugni con l’intelligenza e l’acume dimostrati da qualunque altra cosa da te scritta che mi sia capitato di leggere.

    Non puoi prendere i Dieci comandamenti e montarne una critica sull’incompletezza della fonte o la lacunosità dei commi. Se vuoi iniziare un discorso del genere devi partire con un’analisi storica del contesto in cui i comandamenti sono stati scritti (dall’uomo, come ogni fonte cristiana).

    Da cattolico prendo i dieci comandamenti (e praticamente tutto il vecchio testamento) per ciò che è – una fonte indiretta che ha quasi più un interesse sociologico e storico che non religioso.

  22. Caro Mendicante, accetto di buon grado le tue osservazioni e non le trovo affatto antipatiche (anche se la forma espressiva integra, apparentemente, i modi del cosiddetto argumentum ad personam). Tanto più che – ti sembrerà strano – mi trovo d’accordo con te sul fatto che l’Antico Testamento non sia altro che una fonte (tra le tante) di indagine su una civiltà del mondo antico. Il genere cui esso appartiene è lo stesso nel quale potremmo inserire, ad esempio, la Teogonia di Esiodo o altre amenità sugli dei olimpici.

    Quanto alla scolasticità ed alla barbarie della mia analisi, mi sia sommessamente consentita una breve replica.

    In primo luogo, vorrei immodestamente osservare che non ricordo di aver mai letto su un libro scolastico gli argomenti che io – seppur in modo assai imperfetto – ho tentato di articolare. Ciò, chiaramente, non esclude che essi siano argomenti barbari. Ma, mi sia consentito, se gli argomenti sono sciocchezze degne di un barbaro, dubito che possano aspirare (vabbè che di questi tempi tutto può accadere!) ad essere oggetto di insegnamento scolastico. Quindi, delle due l’una: o sono argomentazioni barbare (cioè delle solenni sciocchezze), o sono argomentazioni scolastiche (cioè non originali).

    Proviamo a vedere insieme se si tratta di sciocchezze (prive di qualsiasi dignità logica) o di tesi risapute (e, dunque, non originali).

    Le mie succinte osservazioni miravano a confutare l’assunto di Pibond, secondo il quale i dieci comandamenti costituiscono l’immutabile ed universale fondamento del sistema etico (al singolare, come a implicare l’impossibilità di diverse etiche). Ed erano formulate volutamente in modo che:
    a) si prescindesse dal contesto culturale e storico in cui si colloca il decalogo (proprio per utilizzare il piano dell’assolutezza e della metastoricità);
    b) fossero chiari i limiti intrinseci di un sistema di regole (sedicenti) divine (che sono i limiti di qualsiasi sistema normativo umano, sul quale nessuno di noi si sentirebbe di fondare IL sistema etico universale ed immutabile);
    c) venisse messa in luce (sempre astraendo dalla profonda diversità delle concezioni, antica e moderna, della libertà occidentale) l’assenza, nel decalogo, di qualsiasi forma di previsione del bene della libertà.

    L’intento era, perciò, quello di mostrare (più che dimostrare, cosa di cui non sarei compiutamente capace) che i dieci comandamenti:
    a) non possono costituire il fondamento ultimo di alcun sistema etico, in quanto a loro volta dipendono da elementi estranei (la legge umana, la cultura del tempo in cui vengono invocati, la sensibilità del popolo che ne fa uso, ecc.);
    b) non riconoscono in alcun modo la libertà dell’uomo, né nella forma del libero arbitrio (la cosiddetta libertà del volere), nè in quella della libertà individuale (la cosiddetta libertà di agire), sicché appaiono decisamente inadeguati a fondare un’etica della libertà (oltre che del dovere); tanto più che la già evidenziata dipendenza logica dalle leggi umane (o civili) determina la possibilità di una soppressione delle libertà (e nella formulazione originaria dell’ultimo comandamento si vieta espressamente di desiderare lo schiavo altrui, legittimando, implicitamente, la schiavitù).

    Ciò detto, mi permetto di osservare che le conclusioni che tu stesso attingi in merito all’interpretazione da dare all’Antico Testamento, mi pare convergano con il mio pensiero in ordine all’impossibilità di utilizzare il testo dei dieci comandamenti come la pietra angolare di un sistema etico universale ed immutabile.

    Ciò mi pare sufficiente per poter escludere che la mia analisi possa dirsi barbarica, pur, forse, non potendo aspirare al crisma dell’originalità.

    A dispetto della prolissità della discussione, l’aver stabilito che i nostri argomenti – pur senza essere originali – convergono verso una medesima conclusione mi pare un ottimo risultato.

    E’ stato un piacere ricevere la tua attenzione.

  23. sara

    Prima di partire, desidero dire a Gianluca che la suggestione di Antoine, l’ho lasciata senza spiegazione o interpretazione perché in quel momento la mia intenzione era solo quella di condividere un’immagine che ognuno poi avrebbe lasciato parlare a modo suo. Tu Gianluca l’hai fatto ed è interessante quello che ci hai visto. Interessante e anche condivisibile.
    Affrontare le questione che avete posto è per me piuttosto impegnativo, volentieri vado pensando e leggendo per mettermi di nuovo a pensare. Leggo e penso soprattutto cose che riguardano la legge, e più in particolare la Torah.
    Sono su un altro sentiero nel guardare al testo biblico, e per potervi parlare devo prima capire dove siete voi rispetto a queste cose, quando mi parrà un poco più chiaro il vostro sentiero con più consapevolezza vi dirò quello che penso.

  24. Cari, sono stato due settimane a Creta e avete proposto a partire dalle mie poche righe una messe di argomenti di estremo interesse. Questo mi fa molto piacere. Qualche osservazione. Il termine “criminali” presuppone una legislazione, che per quanto riguarda il diritto internazionale è relativamente recente, per cui forse non si può applicare a Mussolini e Stalin. Certo però hanno perpetrato entrambi stragi terribili e il fatto che seguissero i loro sogni non è certo una giustificazione, anche se è una spiegazione dei loro comportamenti. Io poi distinguerei fra i sogni di Mussolini e Hitler che erano basati sulla sopraffazione e quelli di Stalin e di Mao che comunque erano fondati sull’uguaglianza.
    Per i cattolici l’Antico testamento non è un testo di valore sociologico, ma, come il Nuovo dice espressamente “la radice che porta”. E’ un testo di importanza fondamentale, che viene sempre più letto e studiato. Si pensi al libro di Giobbe, una delle pagine più grandi di tutti i tempi. L’analisi giuridica di Gianluca dei 10 comandamenti è interessante, perché essi effettivamente erano un testo giuridico e quindi da questo punto di vista possono essere giudicati. Si tratta di un’analisi anacronistica, ma in essa diventa chiaro che nella dottrina abbiamo fatto da allora passi da gigante. Oggi però quel testo, assieme a tutto il resto, ha valore morale e non giuridico, per un cristiano.
    Comunque io non volevo dire che tutto è storicità, come molti filosofi, a partire da Dilthey, passando per Heidegger fino a Gadamer, hanno sostenuto. Certo tutto ha una parziale storicità. E mi fa paura quando non ce se ne rende conto e si pensa, come Mussolini, di essere contemporanei di Giulio Cesare, o come gli urbinati – con cui lavoro – contemporanei di Federico da Montefeltro. Dicevo che per acquisire questa storicità – parziale – è utile passare da un momento di rinascenza, perché nel momento in cui recuperi l’antico ti rendi conto che è qualcosa che non c’è più e allora comprendi la distanza storica.

  25. Tanto per gettare un altro sasso nello stagno, vorrei chiedere a Gianluca Navarrini se per lui il male esiste e, se esiste, è possibile ad un gruppo umano evolvere senza un’etica condivisa, con o senza consenso di tutti.
    Il ricercatore, come lo scienziato, rifiuta l’etica. La società esige un’etica. Quale? La più efficiente. Ho detto che parlo da sociologo e comunico che certe mie idee sono eretiche!
    E, prima che ritorni Sara, mi corre l’obbligo di dire perchè, in un prossimo mio intervento.

  26. Caro Pibond, io non ho dubbi sul fatto che io e te facciamo parte del medesimo gruppo umano. E che, probabilmente, messi dinanzi all’esigenza di adottare alcun scelte nel comune interesse di questo nostro gruppo riusciremmo anche a trovare un’intesa su molte questioni.

    Epppure – è innegabile – la distanza tra le nostre impostazioni è enorme. Direi incolmabile.

    Vuoi sapere se per me il esiste il male, senza porti il problema di stabilire a priori cosa sia il male. Ad ogni buon conto: sì, il male esiste. Ma, forse, la mia idea di male non coincide con la tua. E, dunque, non abbiamo risolto nulla.

    Tu, poi, fai una affermazione che io non solo non mi sento di condividere, ma che è, a mio sommesso avviso, totalmente destituita di fondamento: lo scienziato rifiuta l’etica! Se riufiutasse l’etica non sottoporrebbe i risultati del suo lavoro al vaglio dell’intera comunità scientifica di cui è parte e non si esporrebbe alla critica ed al superamento delle sue tesi. Altro, invece, è dire che lo scienziato, talvolta, non si conforma all’etica comunemente accettata dalla maggioranza degli uomini del suo tempo.

    Quanto, infine, all’affermazione che la società, per esistere e perpetuarsi, esiga l’esistenza di un’unica etica comune, essa mi lascia freddo. La mia impressione è che vi sia indubbiamente la necessità di punti di contatto che creino legami tra gli individui, ma non la piena condivisione di un intero codice etico. Mi pare che la problematica sia stata sufficientemente presa in esame e sviluppata nel dibattito tra comunitaristi e liberal e non credo di poter aggiungere qualcosa di utile. Mi richiamo, pertanto, a quella discussione e mi schiero apertamente nel settore dei liberal (non quelli di Ferdinando Adornato, però!). 🙂

  27. Caro Gianluca, mi devo separare da Pibond e tornare in me stesso: Piero, persona anziana che vuol stare coi giovani a dire ciò che non è mai stato di moda sin dai tempi in cui era giovane.
    Io, Piero, ho sdoppiato la mia personalità creando un altro me stesso: Pibond, persona nel mondo, aspirante al vivere civile in una società condivisa da tutti; Donchì, l amico mentale, una specie di Don Chisciotte che vagola in eterno nella storia.
    Piero sta tra Pibond e Donchì e cerca di costruire un modello di società nella quale possano convivere teologi, religiosi, scienziati, monoteisti, animisti, atei, agnostici ecc., senza tralasciare il fatto che costoro, come tutta la gente del mondo, esprimono sentimenti e soggiacciono a passioni più o meno intense e più o meno dannose per sé stessi e per gli altri.
    Tu, Gianluca, hai ragione, ma il limite del tuo dire sta proprio quando dichiari:”Altro, invece, è dire che lo scienziato, talvolta, non si conforma all’etica comunemente accettata dalla maggioranza degli uomini del suo tempo”.
    Quale è l’etica giusta per gli uni e per gli altri? Quella degli scienziati pro tempore, che riguarda esclusivamente la materia delle loro ricerche? Quella della maggioranza degli uomini? Quella di Kara che ne fa una per ogni sua egocentrica occorrenza? Il mio problema è: Quale etica realizza la reattività sociale più efficiente?
    —————–
    Volevo allontanarmi dall’argomento proposto da Vincenzo, per dedicarmi ad altro, invece credo, tirando dal cappello il mio amico Donchì che visse, vive e vivrà ancora perché troverà tanti amici anche oltre il futuro, ho gettato altra legna sul fuoco.
    Non so se più di venticinque interventi siano troppi o pochi per il tema di questa discussione, ma certamente varrebbe la pena proseguirla sempre sul tema della storia, sotto altri punti di vista rispetto a quello proposto sulla “consapevolezza”.
    ——————
    Peraltro, sempre in attesa delle conclusioni di Sara che è da qualche parte a godersi la vacanza.

  28. “Quella di Kara che ne fa una per ogni sua egocentrica occorrenza?”
    MA no dai, non dirmi così. Non è proprio vero che mi costruisco tante etiche ad hoc. E’ forse vero che ne ho una molto flessibile che si adatta ad ogni occorrenza.
    E comunque ti sei già risposta da solo sull’etica: quella giusta è quella che massimizza l’efficienza sociale. Ingegneristicamente il problema è banale, diventa complesso invece definire l’efficienza di una società, che certo non sta nel suo PIL ma piuttosto nel rispetto che essa ha di sè stessa e dell’ambiente in cui opera.

  29. Inizio dicendo a Gianluca che condivido la risposta, e il fatto che giungiamo a conclusioni simili – il mio era solo un attacco “antipatico” alla necessità logica di attaccare i fondamenti giuridici dei 10 comandamenti.

    Ora, osservando quanto detto da Vincenzo (ossia che il Vecchio Testamento non è un testo sociologico), devo dire che forse è meglio che spieghi con più dettaglio cosa intendo. L’analisi del testo come visione dell’uomo che si relaziona a Dio (e non come di Dio che parla all’uomo) non è assolutamente priva di valore “religioso” – anzi. Però per me, che sono cristiano, la cesura tra vecchio e nuovo testamento è nettissima. Osserviamo in entrambi i casi due testimonianze indirette, ma con processi di composizione e consolidamento completamente diversi. Il vecchio testamento è un testo in costante evoluzione, disomogeneo, che riflette il passaggio di secoli e impulsi diversi. E’ al tempo stesso il libro del dio degli eserciti e del dio del perdono. Fatico a leggerlo come “parola di Dio” perchè la sovrastuttura storica e sociologica è per me soffocante. Libro immenso e interessantissimo, ma comunque “umano”. Il nuovo testamento invece è una testimonianza indiretta, a 4 fonti (almeno per quanto riguarda il Vangelo) a cui si possono applicare tutti i discorsi sopra fatti a patto di tenere in considerazione la parentesi temporale della formazione del testo. Parentesi talmente breve da renderlo, per chi voglia credere, la fonte più diretta possibile.

    Il che esprime in sè la differenza cruciale. Il Dio del vecchio testamento parla come parlerebbe Dio letto dagli uomini. E’ ciò che immaginiamo – onnipotente, criptico, spettacolore. E’ un dio che promette la caduta dei nemici parlando da un arbusto in fiamme, che separa le acque del mar rosso, abbatte calamità sui nemici e fa sentire la sua voce tonante dal cielo.
    Il Dio del nuovo testamento parla attraverso un uomo (un se-uomo), eppure è mille volte più indecifrabile del Dio supremo di Mosè e Giacobbe. Dubita, prega, muore. Le sue parabole sono spesso al limite dell’incompresibile, e senza compromessi. Non è più dolce o accomodante del dio dei testi antichi, anzi, a volte ciò che dice suona terribilmente crudele nelle nostre orecchie.
    E, tornando al punto sollevato da Gianluca, quando il dio di Mosè dà delle regole, dà regole a dimensione di uomo. “Non uccidere”, “Non desiderare la roba d’altri”. “Onora il padre e la madre”. E’ una “costituzione” in fieri, letteralmente.
    Quando Gesù dà un comandamento a misura di Dio. “Ama il prossimo tuo come te stesso”. “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”. Non è “legge”, non è una norma. E sfido chiunque a negare l’eticità e l’applicabilità di questo “codice”. Due (in fondo una) semplice regola che può essere la chiave di risoluzione di qualunque conflitto. Il che è un unicum innegabile nel panorama delle religioni monoteiste.

    Una nota sull’etica del Kara: il suo relativismo etico a mio avviso nasce da una visione fortemente schematica del reale e dalla risultante necessità di certezze. Una persona che sogna un giorno di vedere la psicostoria aasimoviana divenire realtà non è relativista – non vuole un etica per ogni occasione. Piuttosto (cosa confermata dall’osservazione del Kara durante simili discussioni nella vita reale) credo che in una certa misura questo relativismo nasca dalla frustrazione del vedere l’impossibilità di ricondurre tutto (perfino se stesso) ad un unico grande schema. Credo che per una mente come quella del Kara sia più semplice rifuggire l’idea di un grande schema etico applicabile a tutto piuttosto che dover ammettere che non è possibile trovarne uno.

  30. Il punto focale del discorso proposto da Vincenzo, sta nel considerare che la storicità di un’epoca può essere colta passando da “un momento di rinascenza”. La cosa è di tutta evidenza quando si pensa di far rivivere il passato di Giulio Cesare in Mussolini. La cosa, in effetti, successe – ma senza momento di rinascenza – quando quest’ultimo volle rinnovare i fasti della romanità ricostituendo le coorti di balilla e avanguardisti coi fasci littori, armandole di moschetti 91/38 anziché di daghe.
    Ciò che molto imperfettamente tento di dire, è che le differenze che si riscontrano tra le varie civiltà che succedono l’una all’altra sono da ricercare nei fatti e in ciò che lasciano in eredità per i posteri: eredità da valutare in termini di rinascenza, direbbe Vincenzo, se interpreto bene il suo pensiero. L’elemento vincente della romanità furono la virus, l’honor, la concordia e la pax; ben diversamente dalla virtù e dall’onore cristiani che si celebra con l’amore per il prossimo. In entrambi i casi, etica e leggi sono il collante che consente alla società di conseguire l’equilibrio nel proprio contesto storico.
    L’etica ha un valore universale e sostanzialmente i fatti storici confermano che le azioni umane si svolgono secondo un’etica costante che nasce dal diritto naturale che in sintesi consiste in due fondamentali istinti, l’uno riguardante tutte le specie viventi della natura, l’altra peculiarmente l’uomo: 1. l’istinto della conservazione della specie; 2. la coscienza di esistere che si sviluppa nel gestire le libertà di scelta nel proprio ambito sociale.
    A mio avviso, la consapevolezza parte necessariamente dall’esistere nel proprio tempo storico con particolare riferimento ai vincoli socio-economici per il mantenimento di un sostanziale equilibrio nei rapporti interpersonali e associativi. L’etica agisce sulla coscienza dei singoli e si codifica nel gruppo e, in caso di trasgressione, prevede l’espulsione e non una pena generica.
    Il codice etico è tanto più complesso quanto più sono elaborate le conoscenze richieste per l’esecuzione degli atti secondo scienza e coscienza. Il codice etico non prevede doveri: tutti gli atti sono volontari ma vincolati strettamente ai vincoli creati dall’uso conforme degli strumenti di esecuzione degli atti. Chi sbaglia si fa male da solo ed esce dal gruppo. I comandamenti sono regole che costituiscono un codice etico elementare. Nasce dal diritto naturale e, a mio parere, sta alla base di tutte le etiche specialistiche. I comandamenti hanno avuto una lenta evoluzione propria, ma sostanzialmente si sono sempre agganciati agli anzidetti due istinti.
    Non rubare sta alla base anche del codice etico degli affari; non ammazzare in quello dei medici e così via. I comandamenti hanno solo un valore morale, non costituiscono un complesso di diritti-doveri. Il diritto comporta la perdita della libertà ed il singolo diventa un soggetto che opera a norma di legge il ché comporta la soppressione della coscienza di scelta che – invece – è implicita nell’etica.
    ——————
    Per quanto riguarda gli articoli della Costituzione italiana citati da Gianluca, ritengo che non sono affatto liberali. La libertà è concessa al cittadino secondo la legge e la legge pone sotto protezione (e chi si fida con dei parlamentari tipo di Pietro?) la libertà del cittadino. L’art. 23 poi, è decisamente sovietico. Uno Stato che impone una prestazione patrimoniale o personale non è uno stato liberale. Qualche pazzo in parlamento costituitosi in maggioranza potrebbe imporci cose obbrobriose.
    http://www.pibond.it/argomenti/eventi_di_oggi_visti_ieri/liberta_e_lavoro.htm

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