CALABI SULLA PERCEZIONE

E’ appena uscito da Laterza un libro molto bello, chiaro e completo sul problema filosofico della percezione, scritto da Clotilde Calabi, che insegna all’Università Statale di Milano. Vale la pena presentarlo. Buona parte della discussione si concentra su come funziona il “vedere”, dove con questo termine si intende un successo, cioè se Giulio vede una tartaruga è vero, allora davanti a Giulio c’è effettivamente una tartaruga. Verrebbe da dire che la questione è molto semplice: là fuori c’è una tartaruga, che a un certo punto è incontrata dallo sguardo di Giulio. Ma la faccenda non è così semplice, poiché il contenuto della nostra percezione, quando vediamo la tartaruga da diversi punti di vista non è lo stesso e ciò malgrado diciamo che noi percepiamo la stessa tartaruga, ma ciò che ci appare nella percezione è sempre diverso. Poi c’è il problema che magari Giulio dice di vedere una tartaruga e in realtà sta guardando un porcospino, perché è un po’ miope. Questa è un’illusione. Addirittura Giulio potrebbe avere preso una dose di LSD e quindi vedere una tartaruga là dove non c’è nulla: allucinazione. Infine la scienza ci informa che spesso ciò che noi vediamo è molto diverso da come lo vediamo. Per cui la teoria semplice della percezione che avevamo proposto non funziona. Questo ha portato molti autori a formulare quella che è stata chiamata la teoria dei dati sensoriali, almeno da Cartesio in poi fino a Moore. In base a questa ipotesi noi non vediamo gli oggetti là fuori, ma qualcos’altro, cioè gli oggetti come appaiono a noi, ovvero i fenomeni, dietro ai quali ci sarebbero gli oggetti in sé. Le obbiezioni contro questa teoria prese in considerazione dall’autrice colpiscono teorie parziali dei dati sensoriali, ma la teoria più comune sembra essere quella che distingue totalmente fra l’ambito del dato e la realtà. Il mondo, ci dice la scienza, è fatto di atomi, di onde elettromagnetiche ecc., qualcosa che non ha nulla a che fare con ciò che percepiamo. L’idea di fondo sarebbe che l’interazione causale fra i nostri apparati sensoriali e queste radiazioni provoca la nostra esperienza soggettiva. Ma, e questa mi sembra l’obbiezione fondamentale a questo punto di vista, di fatto non possediamo una buona spiegazione di quel “provoca” che abbiamo utilizzato. Non è chiaro come i neuroni del nervo ottico e della corteccia visiva interagendo con una luce che ha lunghezza d’onda 8000 Angstrom facciano sì che vediamo il violetto! La causalità, infatti, presuppone una certa omogeneità fra causa ed effetto.
Calabi allora prende in considerazione la famosa teoria avverbiale della percezione, messa a punto da Chisholm, secondo la quale vedere rosso significa vedere rossamente, cioè il rosso non è l’oggetto della visione, ma una modalità appunto avverbiale del vedere. Ciò che vediamo, poi, sarà l’oggetto distale della scienza fisica. La debolezza dell’avverbialismo sembra stare nel fatto che il rosso, che dovrebbe essere un avverbio del vedere, è là fuori dal punto di vista introspettivo.
A questo punto viene esaminata la teoria che oggi va per la maggiore, cioè il rappresentazionalismo, in accordo con la quale noi percepiamo delle rappresentazioni che rimandano in modo informativo agli oggetti là fuori. La cosa mi lascia molto freddo, innanzitutto perché mi sembra che anche questa teoria non sia aderente alla nostra percezione. Io non vedo una rappresentazione di una tartaruga, ma una tartaruga. Il contenuto della mia percezione sarebbe definito come le condizioni che lo soddisfano. Cioè il contenuto della mia percezione di un vitello sarebbe un vitello in carne e ossa. La teoria rappresentazionale va incontro a un’interessante obbiezione di Boghossian, Velleman e Bach che non conoscevo. Se un miope si toglie e mette gli occhiali, nel primo caso vede tutto sfocato, mentre nel secondo vede bene. Questo fenomeno sembra ben interpretato alla luce del fatto che mentre la sfocatezza senza occhiali fa parte del soggetto, invece gli oggetti che comunque vediamo fanno parte dell’oggetto, cioè noi percepiamo sempre degli oggetti là fuori e non delle rappresentazioni di oggetti. Dretske avrebbe risposto che le due percezioni sono due diverse rappresentazioni di ciò che è là fuori, ma sembra artificioso. Calabi chiama il rappresentazionalismo una teoria della percezione diretta, mentre a me sembra che sia più simile alla teoria dei dati sensoriali. La teoria rappresentazionale viene spesso declinata in senso causale, anche a causa di un bel paradosso di Grice. Se Tizio ha davanti un orologio a pendolo e nel frattempo gli stiamo stimolando la corteccia visiva in modo che veda un orologio a pendolo, non si può dire che stia vedendo un orologio a pendolo. L’orologio deve anche essere la causa del suo vedere. E allora torna il problema che dicevo prima: che cosa significa per uno stimolo distale causare la visione? Infine c’è la teoria disgiuntiva, secondo la quale noi percepiamo sempre oggetti esterni, tranne quando abbiamo un’allucinazione. La debolezza di questa teoria sta nel fatto che è impossibile distinguere fra allucinazioni e percezioni reali, come la teoria stessa vorrebbe. La percezione, ad esempio, secondo Brewer sarebbe una relazione a tre posti fra un soggetto, delle circostanze e un oggetto. Il primo capitolo si chiude con un intervento del criticone, che poi scopriremo sarà Austin, che chiede al rappresentazionalista e al disgiuntivista che cosa è l’oggetto là fuori.
Il secondo capitolo è un’analisi molto chiara delle condizioni del vedere. Qui Calabi analizza tre possibili teorie: quella per cui si può vedere senza riconoscere in alcun senso ciò che si vede, di Dretske, che però sembra paradossale, perché non si comprende come si possa vedere qualcosa che non è almeno in minima parte percettivamente saliente. Bello l’esempio dell’esagono di Kanizsa. D’altra parte alcuni sostengono che addirittura per vedere bisogna riconoscere per concetti, come McDowell. E’ chiaro che questo è troppo. Noi riconosciamo migliaia di sfumature diverse di colore senza di fatto possederne i concetti, cioè senza avere la capacità di generalizzare anche un poco (vincolo della generalità per i concetti). Dunque per vedere è sufficiente prestare un minimo di attenzione. A questo punto Calabi ci spiega in modo semplice ed elegante la complicata teoria di Peacocke del contenuto non concettuale, cioè di questa salienza percettiva minima rispetto alla quale abbiamo prestato un po’ di attenzione senza riconoscerla. Noi vediamo tale salienza quando percepiamo l’insieme dei possibili scenari percettivi compatibili con quella salienza. E’ molto artificioso anche se interessante.
Nel terzo capitolo Calabi esamina la teoria della percezione di Gregory, secondo cui il percetto sarebbe una sorta di inferenza alla miglior spiegazione messa a punto dal cervello a partire dai pochi dati che gli arrivano dal nervo ottico. Un po’ come nella teoria dell’inferenza inconscia di Helmholtz. Con questa teoria si fa però fatica a spiegare il famoso triangolo di kanizsa.

KANIZSA

Qui si vede il triangolo con i bordi, come ci fossero due diversi tipi di bianco. Il triangolo non è una forma tanto comune, cioè questo non avviene per inferenza alla migliore spiegazione. La teoria di Gregory, in un certo senso viene generalizzata da quella di Marr, secondo cui il percetto è un’elaborazione computazionale dell’informazione in entrata. Giustamente Gibson ha criticato questo tipo di approcci che non tengono conto dell’immensità di informazione che arriva al cervello a causa del movimento. Per questo egli crede che la visione vada studiata nel suo ambiente naturale e non in laboratorio. La percezione consiste non tanto nella costruzione del percetto, quanto nella ricerca delle invarianze. E l’illusione dipende da una percezione incompleta. Difficile capire quale potrebbe essere una teoria gibsoniana dell’allucinazione. Calabi mostra una certa simpatia per la teoria di Gibson, che associa a quella del criticone Austin.
Il libro è bello e fa pensare.

5 commenti

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5 risposte a “CALABI SULLA PERCEZIONE

  1. sara

    Questo è un tema filosofico che mi appassiona.
    E per dirne un’altra…da come lo racconti, questo lavoro non fa altro che confermare l’intelligenza arguta delle donne!
    In tutti i campi quando una donna ci si mette, si possono rilevare delle modificazioni sensibili della realtà.

  2. sara

    Per precisare meglio la fondatezza di quello che ho detto sopra a proposito delle donne, ma che non c’entra con il tema filosofico proposto dal post, rimando al capitolo “Ruolo attivo delle donne e mutamento sociale” del libro di Amartya Sen “Lo sviluppo è libertà”. È un capitolo da meditare più che da leggere, assieme a quello che lo precede dal titolo “Carestie e altre crisi”.

  3. Sì è vero. Il libro denota un notevole garbo femminile!

  4. alfredo

    Tutti noi esseri umani abbiamo continuamente davanti agli occhi il PLINTERILLO OSTRICINALE. Eppure nessuno ne parla mai.

  5. Pingback: PATERNOSTER SULLA PERCEZIONE « VIVERESTPHILOSOPHARI di Vincenzo Fano, Professore di logica e filosofia della scienza

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